CICANA, POSTA PER MONIA?

La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla” G. MARQUEZ

CAPITOLO UNO

LA TRAMA DEL FILM

Sì, la vita è come un film, e Giò se la immaginava così, con lo srotolarsi all’indietro dei fotogrammi, come un’esistenza che trovava teatro nella sua fantasia e che da qualche parte, in un mondo parallelo, andava in scena costantemente. 

Quell’incontro tra i suoi nonni, probabilmente, non si era mai verificato, ma a lei piaceva ricostruirlo in quel modo, con un tocco di romanticismo che lasciava aperte le possibilità.

Per Giò, ogni memoria si trasformava nella trama del film di cui lei scriveva la sua personale sceneggiatura, e dove aggiungeva quei particolari mancanti che servivano ad arricchire l’avventura. Non era un modo per modificare il destino, purtroppo esso è quello che ci è dato, ma era un mezzo per dare un tono più avvincente alla storia vera.

Mentre osservava i suoi figli che giocavano sulla riva del mare, un’improvvisa ondata di malinconia le salì in gola. Tutto quello che era stato e non era più, stava diventando un peso attaccato alla striscia dei ricordi.

Un’altra dura giornata di lavoro estivo presso l’hotel gestito dai suoi genitori si era appena conclusa, e quelli erano gli unici momenti di relax che si poteva godere, con il tramonto a colorare di rosso la spiaggia deserta di turisti. In quella circostanza decise che non poteva rovinarlo con eccessi di tristezza.

Riprese a guardare i suoi figli ed evitando che l’infelicità prendesse il sopravvento si concentrò a scoprire il loro gioco. Stavano facendo avanti e indietro tra la buca che avevano scavato nella sabbia e la riva del mare, portandosi dietro ogni volta un piccolo secchiello colmo di acqua del mare.

Nell’alternanza con cui ripetevano la spola, correndo e ridendo pieni di eccitazione, lasciavano che gran parte dell’acqua, appena presa dall’immensa distesa dell’Adriatico, si spargesse in giro senza arrivare a destinazione.

Dall’entusiasmo e dalla foga con la quale s’impegnavano, nonostante le risa e il gioco, sembrava che volessero svuotare il mare e che il loro fine ultimo fosse quello di portare tutta l’acqua nella loro piccola buca.

Giò li osservava seduta sul moscone arenato vicino all’ultima fila degli ombrelloni. L’estate era giunta nel pieno della stagione e Giò cercava di rilassarsi per evadere in qualche modo dopo un’altra stressante giornata di lavoro in albergo.

Quel loro gioco, semplicissimo e assurdo nello stesso tempo, riuscì a distrarla quel tanto che bastava a portare i pensieri lontani dai problemi pressanti. Adesso si sentiva libera d’interessarsi a quel loro divertimento infantile.

Correvano e si affannavano, per non perdere l’attimo, e per mantenere la buca sempre piena fino all’orlo, evitando che si prosciugasse. Il maschietto si occupava con una solerzia simile a quella dell’impegno sul lavoro di un adulto, mentre la sorella, più grande di lui di qualche anno, lo incitava con urla accompagnate da risate sguaiate che rasentavano l’isteria. 

Mentre Giò osservava i suoi figli, si ricordò dell’articolo di un noto giornalista che sua sorella Eva aveva letto su un quotidiano. Era un brano che riguardava la difficoltà nel gioco per i bambini che, tra computer e videogiochi, sono surclassati dalla complessità del divertimento.

Il mondo adulto si adopera all’inverosimile per mettere a disposizione dei propri figli il meglio della tecnologia. Tuttavia, nonostante questi costosi sforzi, in realtà non c’è niente di meglio e che li impegni tanto a lungo come un secchiello e una paletta in riva al mare.

In questo, rifletté Giò, lei e le sue sorelle si potevano considerare veramente fortunate nell’avere a disposizione una spiaggia lungo la costa dell’Adriatico dove far sfogare liberamente i propri figli.

Intanto che si perdeva nei pensieri, i due bambini erano diventati sempre più indaffarati. Il loro fare avanti e indietro, pur avendo poco senso ai fini del risultato, strappava tanta tenerezza: quanto erano belli!

Entrambi si erano infervorati in quel gioco, e facevano delle scelte complicando le regole a mano a mano che avevano deciso cosa fare e come farlo.

Ai bambini basta veramente poco per divertirsi e per inventare un motivo di gioco. Per Giò quella fu una rivelazione che la fece di nuovo tornare nei ricordi.

Chissà se anche lei era stata così come loro, ingenua ed esaltata per un gioco semplice. Chissà se insieme alle sue sorelle, aveva costruito un mondo fatto di regole dettate solo dalla loro fantasia.   

Giò pensò di nuovo a quello che aveva letto Eva, e al ragionamento che avevano fatto su come era diventato complesso il mondo dei loro figli. Giò e le sue sorelle, dopo gli eventi di quegli ultimi anni, erano diventate più esigenti. Avevano trasformato il loro modo di vedere la vita in maniera complicata, più di quanto non fosse necessario per affrontare la realtà.

Per esempio, riguardo alla temuta complessità del mondo, quanto si sbagliassero nel considerarla tale glielo stavano dimostrando i suoi figli in quel momento, con la semplicità del loro gioco.

Per questo, concluse Giò tra sé e sé, non dovevano lasciarsi condizionare dalle difficoltà o arrivare a considerare la crescita dei figli come un passaggio difficile da seguire e da accompagnare.

Bisognava fare tesoro delle opportunità e sfruttare l’esperienza acquisita per garantire, anche ai propri figli, uno sviluppo degno delle loro potenzialità. Per permettergli di affrontare il mondo, complesso o semplice che fosse.

Fare quelle considerazioni portarono Giò a riflettere su ciò che era stato e, immediatamente, il suo cervello fu catapultato indietro nel tempo e nei ricordi.  Come la pellicola del suo immaginario film, le immagini cominciarono a scorrere, e lei iniziò a ricordare il modo in cui loro si erano divertite, con i giochi della loro infanzia.

Giò aveva avuto due sorelle come compagne di giochi, Eva, di un paio d’anni più grande, e Lia, un anno meno di lei. Diverso tempo dopo la famiglia si sarebbe arricchita con l’arrivo di Ricky, il non sospirato maschio; ma a quel punto il gioco avrebbe assunto delle caratteristiche diverse, sia per le tre bambine, diventate ragazze e quasi donne, sia per il piccolo Ricky.

A nessuna di loro tre erano mancati i bei giochi. Nonostante l’elettronica non fosse ancora entrata nel mondo dei bambini, anche ai loro tempi c’erano le bambole che parlavano e i trenini a batteria.

Tuttavia la fantasia di tre bambine non poteva farsi limitare dalle bambole che dettavano le regole del gioco. È vero, camminavano, parlavano e piangevano ed erano all’ultima moda. Tuttavia loro, dopo averci fatto qualche esperienza a riguardo, le abbandonavano e tornavano a giocare con quelle più semplici, perché si strapazzavano meglio.

Come succedeva ai maschietti, che giocavano con il trenino il tempo sufficiente finché venisse a noia, anche loro facevano piangere e parlare la bambola finché serviva al gioco. Poi toglievano il dischetto e continuavano a giocare liberando la fantasia e costruendo la loro rappresentazione di mamme e figlie.

Certi giochi, per la loro complessità, limitavano di fatto la fantasia dei bimbi permettendo solo certi sviluppi dell’azione. Se il dischetto della bambola diceva: “mamma, ho fame” chi faceva la sua mamma doveva per forza darle da mangiare di continuo, mica poteva portarla a spasso come facevano le altre bambine, che alle loro bambole mettevano in bocca le frasi che più facevano comodo per il gioco!

Il bambolotto di Giò, per esempio, faceva sempre la cacca e lei era sempre dietro a lavarlo; non per niente le aveva dato il nome di Popò. La fantasia quando non ha limiti imposti dalle regole di un gioco strutturato, spazia in maniera incredibile e quando non è codificata dagli stereotipi della vita degli adulti è ancora più vivace nella sua freschezza e semplicità.

Così le tre bambine costruivano il loro piccolo mondo pieno di bambine/mamme indaffarate, e di bambini/bambole che davano ogni sorta di problemi; come tutti i bambini, giocavano con la trasposizione della realtà, e il gioco era infinito.

Quando gli anni dell’infanzia terminarono per dar spazio a quelli dell’adolescenza, il loro modo di affrontare la vita continuò sulla stessa linea ludica. Copiavano l’impegno e il tipo di occupazione che vedevano fare agli adulti, cambiando le regole del gioco.

Che, comunque, sempre gioco restava.

Per imitare e per poterlo fare al meglio, iniziarono a trasformare anche le difficoltà in un gioco e, cercando di risolvere le complicazioni, finivano per non chiamare mai i problemi con il loro vero nome.

Forse era l’enorme dose di spensieratezza che certa età porta intrinsecamente in sé a dargli quella costante dimensione di gioco. Oppure solo la grande fiducia nei loro mezzi con la quale erano cresciute, che le rendeva così sicure di come affrontavano la vita.

Di fatto la realtà restava ai loro margini senza mai scalfirle. Le verità giravano attorno a loro senza colpirle mai, senza mai portarle via dal loro meraviglioso mondo del gioco. Perché la realtà era triste e cattiva, ma se la si applicava a un gioco tutto diventava gestibile.

Per come la vivevano loro, tutto veniva dimensionato alla trama dei loro divertimenti.  E quando diventavano padrone del gioco potevano gestirlo come volevano. Nel momento in cui veniva a noia, poteva essere cambiato con un altro.

Oltre ai giochi che scatenavano la loro fantasia di bambine, s’impegnavano ad applicarci una sorta di trasposizione della realtà. Lo facevano per adattare i connotati dell’ambiente al loro mondo di fantasia.

E questo si concretizzava anche con la reazione verso gli atteggiamenti dettati dalla mentalità del piccolo paese in cui vivevano. Nel senso che scacciavano i fantasmi alimentati dalle chiacchiere banali con un comportamento che le portava a sentirsi superiori a esse. Perciò non diventavano mai delle limitazioni alle decisioni sulle loro scelte.

Il fatto di avere una madre straniera e di essere state a contatto con altri paesi, altri usi e altri costumi, le faceva sentire diverse e, naturalmente, orgogliose di esserlo. Gli piaceva credere di essere, o perlomeno sentirsi di essere, un po’ fuori dai canoni della normalità.

Quanto questo fosse visibile o comprensibile non lo sapevano, ma, tutto sommato, poco importava. Avevano un atteggiamento diverso nei confronti della vita e questo modo di affrontarla era ciò che segnava i loro comportamenti.

Il trascorrere del tempo non le avrebbe cambiate e, alla soglia dei trent’anni, potevano continuare a credere di aver mantenuto gran parte della loro spontaneità di bambine.

Giò continuava a guardare i suoi figli che giocavano sulla battigia e intanto la memoria scandagliava i ricordi e accendeva brevi flash su immagini di come erano cresciute.

Nella loro famiglia il gioco aveva sempre avuto un ruolo importante, come cura dello spirito e come rinfrancante dagli stress delle fatiche e del lavoro. Se il fatto di andare a trovare i parenti lontani durante le festività natalizie era un noioso obbligo, loro lo avevano trasformato nel più grande dei giochi avventurosi.

Quando il lavoro estivo era affaticante e snervante, loro lo trasformavano in un momento di incontro e di gioia. Se le serate con i nonni erano limitanti loro le trasformavano in gioco con rappresentazioni teatrali a uso e consumo della famiglia.

Probabilmente in tutto ciò avevano avuto la complicità del resto della famiglia, i cui membri, dal nonno alle zie e ai cugini, avevano una propensione genetica al gioco inteso come sdrammatizzazione del vivere terreno.

Giò e le sue sorelle avevano vissuto il gioco sotto le forme più diverse, da quando erano stati i giochi della prima infanzia, fatti di lotte e gare con gli orchi, a quelli che diventavano più ragionati fatti con le bambole e le esplorazioni fuori dal giardino.

Dalle passeggiate di svago in montagna fatte in periodi fuori stagione, che si trasformarono nelle settimane bianche con le gare sugli sci, dalle gelosie puerili con le amiche che si sarebbero trasformate nelle diatribe con i morosi.

Dalla gara a chi restava incinta per prima a quella su chi avrebbe cresciuto meglio i figli. Tutto era stato, ed era, un gioco; se non lo era, loro lo rendevano tale.

Era l’inevitabile evoluzione nella crescita di tre menti intelligenti, e loro tre erano state giocherellone per un lungo periodo. Probabilmente lo erano ancora al momento in cui avevano preso marito e fatto i figli. 

Certamente il gioco era cambiato, era diventato più complicato e animato da momenti duri e difficili. Ma questo non aveva modificato il loro modo di prendere la vita, sempre e comunque, come un grande gioco.

Le immagini che stava seguendo dal vivo la portarono indietro nel tempo, a ricordare i suoi giochi d’infanzia. Chissà se anche lei con le sue sorelle, all’età che avevano i suoi figli adesso, erano state così semplici ed entusiaste nei giochi. Oppure se avevano cercato le vie più complicate del divertimento perché si sentivano stanche delle cose semplici.

Giò guardava i suoi figli giocare con l’acqua del mare e scoprì nei loro gesti una sorta di ritualità, una specie di legge invisibile sotto la quale veniva codificata l’azione che stavano svolgendo.

Quella legge invisibile era la stessa che aveva segnato i loro rituali di crescita all’interno della grande scuola di pratica che sono i giochi dei bambini. Una scuola senza maestri, senza insegnanti e senza arbitri.

Una scuola che aveva le regole impresse nella natura umana e seguiva l’istinto primitivo delle leggi non scritte, che fanno parte del patrimonio genetico dei cuccioli dell’essere umano. Regole dettate, nell’età dell’infanzia, dal massimo della spontaneità, quella che non si ritroverà mai più in tutto il resto del processo evolutivo.

Seguendo come si assoggettavano i suoi figli a quelle leggi, a Giò tornarono in mente i suoi momenti d’infanzia.

Quello che ricordò fu una lunga serie di episodi, un ordinato resoconto di fatti che la mente selezionò come i passi fondamentali della sua crescita. Episodi e fatti che si interromperanno solo quando la crescita e il gioco finiranno per sempre.

CAPITOLO DUE

LE RADICI

– Goofie stai vicino a me, di là passa la ferrovia e non ti devi avvicinare.

In quei giorni di primavera Giò stava camminando lungo uno dei tanti sentieri delle Terre di Focara. Era in aperta campagna e quella passeggiata con il suo fido Goofie era uno dei modi per scoprire quale stradina avrebbe potuto condurla fino al Cimitero degli Inglesi.

Ad un certo punto lasciò alle sue spalle il vecchio casello ferroviario, quello dove suo nonno aveva fatto trascorrere l’infanzia e l’adolescenza a suo padre e al resto della famiglia.

In quel periodo Giò stava scoprendo di nuovo la Storia che era passata tra quelle selve durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale. Come in un gioco mentale ormai collaudato la sua mente fece ripartire l’elaborazione dei ricordi. E la trama del film sulla memoria tornò a costruirsi armata dalla sua fantasia.

Richard si guardava la mano pensieroso, aveva messo il gomito sul ginocchio destro e lo stivale era appoggiato sul parafango della camionetta. Durante quella piccola pausa, mentre scrutava l’orizzonte di quelle terre desolate, era tornato con gli occhi sul suo palmo, e con il pensiero alla sua lontana Inghilterra, alla sua famiglia, alla sua casa.

Il suo compleanno era passato da alcuni giorni e, alla fine di quell’estate del millenovecento quarantaquattro, la lontananza durava ormai da parecchio tempo. I ricordi di chi lo aspettava a casa stavano diventando pressanti.

Se continuava così, a rimuginare nella sua testa, avrebbe corso il rischio che la malinconia prendesse il sopravvento. Cercò di scuotersi tornando con il pensiero al presente.

Qualche settimana prima, proprio il giorno del suo compleanno, il ventitré agosto, Churchill era venuto sulla Linea Gotica per seguire da vicino l’inizio dell’offensiva alleata. Con il lancio dell’Operazione Olive s’intendeva sfondare la Linea Gotica e costringere alla resa l’esercito tedesco.

È vero, ripeteva Richard nella sua mente, se c’è una missione da compiere bisogna darsi da fare, cominciare ad attaccare senza compiere gli stessi errori fatti con lo sbarco a Salerno.

Durante la Battaglia nel Mediterraneo l’apporto delle unità della Marina Britannica, incluso quello della nave Canae su cui Richard era imbarcato, fu decisivo per consentire l’accesso a Salerno. Successivamente questo diede agli alleati il vantaggio che avrebbe portato alla liberazione di Napoli.

Nei giorni seguenti all’Operazione Avalanche del nove settembre millenovecento quarantatré ci fu molta confusione. Gli americani erano sbarcati su una delle due sponde del Sele, mentre sull’altra si erano appostati gli inglesi.

Il fiume Sele rappresentò uno spartiacque naturale tra i due corpi d’armata sbarcati nel golfo di Salerno e, attaccandolo, i tedeschi di Kesselring arrivarono molto vicini allo sfondamento.

Solo la tenace resistenza anglo-americana, con il supporto dell’artiglieria alleata, scongiurarono il disastro. Quindi l’azione immediata su Napoli, invocata dagli americani, dovette attendere il momento giusto per cogliere di sorpresa i tedeschi appostati nelle paludi circostanti la città.

Richard, dopo lo sbarco, iniziò il suo lavoro d’intelligence per coordinare le forze in campo, e venne distaccato con i battaglioni di terra. In seguito alla liberazione di Napoli, divenne a tutti gli effetti un militare e fu aggregato all’ottava armata in avanzata dalla Sicilia.

Nelle settimane successive Richard aveva attraversato le montagne dal Tirreno all’Adriatico. In quei luoghi sperduti, dove regnava solo la confusione, qualcuno aveva avuto la brutta idea di sottrargli un porta tabacco in avorio, ricordo dei suoi parenti emigrati in Africa, con dentro l’unica foto che aveva di sua moglie.

Entrambi gli oggetti avevano un valore più affettivo che altro, e per Richard il ricordo si fece di nuovo struggente; nel Berkshire lo attendeva la sua famiglia, sua moglie, la sua splendida figlia e l’ultimo nato, suo figlio di appena un anno. Non sapeva quando li avrebbe rivisti, né quando quella dannata guerra sarebbe finita.

Winston Churchill era stato qualche settimana prima in visita proprio nei loro avamposti. A parere del Ministro della Guerra britannico l’attacco alla Linea Gotica aveva la priorità in quel momento. La sua volontà era di riuscire a liberare l’Italia fino al confine con la Jugoslavia, per evitare il successo dell’avanzata comunista in Europa.

Richard ora si trovava al centro della Linea Gotica; era la fine dell’estate del millenovecento quarantaquattro. Attorno a lui si stendevano chilometri e chilometri di filo spinato, mine sepolte, rotaie imbottite di esplosivo e tutto quanto avessero potuto mettere i tedeschi tra la loro ritirata e l’arrivo delle truppe alleate.

Dalla posizione nelle alture dell’entroterra o lungo la costa, lo spettacolo era tetramente affascinante: linee di trincee si intervallavano alle torrette dei bunker disegnando un quadro di figure geometriche regolari.

In quei giorni di fine agosto del millenovecento quarantaquattro, Richard e le truppe anglo-americane si trovavano di fronte alla Linea Gotica e, doveva ammetterlo, in certi momenti l’avanzata era veramente difficile.  Tra pochi giorni sarebbero cominciate le piogge e con l’attraversamento dei fiumi che li separavano dall’arrivo in pianura Padana, avrebbero incontrato un ostacolo ancora più fastidioso, il fango.

Tornò a guardare l’orizzonte, dalla loro postazione si dominava la valle sottostante che si stendeva lungo gli ultimi baluardi dei tedeschi in ritirata. Distese di campi coltivati, alcuni con il grano ancora da mietere, altre con i filari di vite mozzicati dalle razzie o rasi al suolo per permettere l’interramento delle mine.

Le zone collinari sembravano zucche rasate, perché non c’erano alberi o boschetti che interrompessero la curva della linea dell’orizzonte. Lasciare dei ripari o dei nascondigli ai partigiani e alle avanguardie alleati, sarebbe stato stupido, perciò i tedeschi avevano deciso di radere al suolo ogni arbusto.

Richard pensò di nuovo ai suoi cari, a quando avrebbe potuto riabbracciarli. Indubbiamente c’era ancora tanta strada da fare per liberare l’Italia, ma in quel momento, sentito l’odore della fine quasi imminente delle ostilità, il desiderio di tornare alla vita normale diventava più pressante che mai.

“Wo ist die siebte? Wo ist die siebte?” continuava a urlare il capo del gruppetto di militari tedeschi che erano entrati nella casa che fungeva da casello ferroviario. Dopo aver contato i piatti apparecchiati sulla tavola si erano accorti che il capofamiglia si era nascosto poco prima del loro arrivo; per alcuni minuti nessuno in casa gli diede retta, poi uno dei commilitoni si avvicinò pericolosamente a una delle ragazze e la prese per un braccio. Comprendendo la gravità della situazione, Igino decise di scendere dal rifugio in solaio e si presentò dicendo:

  • Sono qui, accidenti a voi, cosa volete?
  • Komm mit uns, schnell, schnell.

Il militare che aveva parlato lo prese sotto braccio e lo spinse verso la porta usando la mitraglietta. Impaurito da quella richiesta, Igino si voltò verso Mario e lo attirò a sé. La moglie urlò disperata.

  • Non portarlo con te, lascia qua il bambino.
  • Se mi vedono con un bambino non mi ammazzeranno. So che vogliono farmi scavare le buche per mettere le mine lungo la ferrovia, però se sono con lui mi lasceranno tornare a casa.

Le fasi di quel reclutamento stavano diventando concitate, ma Igino era sicuro di ciò che stava facendo e, tra il mutismo e il terrore del resto della famiglia, si trascinò dietro l’unico figlio maschio.

Seguì il gruppetto di militari tedeschi, era la fine di agosto del millenovecento quarantaquattro, il fronte anglo-americano stava avanzando e quelle azioni dei tedeschi erano gli atti disperati prima della ritirata, quando l’unica mossa da fare è quella di intralciare l’avanzata del nemico.

Il comando tedesco si era insediato a Villa Cirelli, una casa in cima a una piccola collinetta dalla quale di dominava la Strada Statale che da Nobili conduceva a Gàlino. Igino sapeva dov’erano e, guardando verso nord dal suo casello che si trovava sul lato opposto lungo la Statale che fiancheggiava la ferrovia, vedeva la piccola stradina in salita che portava alla Villa, e tutte le camionette che andavano e venivano in quei giorni concitati. Le ultime notizie erano quelle di un arrivo imminente degli alleati, la loro offensiva era già stata lanciata.

  • Domani bisogna andare a parlare con i ferrovieri del posto, dobbiamo conoscere i punti in cui hanno posizionato le mine.

Richard ascoltava il suo comandante in capo che gli impartiva quell’ordine. Lui faceva parte del reparto genieri, prestato dalla Marina Britannica per aiutare l’avanzata delle truppe anglo-americane. Il suo lavoro di intelligence era fondamentale per far sì che le truppe avanzassero in sicurezza.

In quei mesi dell’estate del millenovecento quarantaquattro, i battaglioni delle diverse formazioni che componevano i reparti alleati stavano lentamente liberando le frazioni dei paesi che incontravano nella loro avanzata.

C’erano i polacchi, i canadesi, gli scozzesi, gli inglesi che, aiutati dalle brigate partigiane presenti sul territorio, ogni giorno riuscivano a liberare un avamposto o un punto strategico. Richard prese il dispaccio con l’ordine e si avviò pensieroso, il problema era come fare per contattare un ferroviere che potesse dargli delle informazioni utili.

Gli venne in mente il traduttore che i partigiani avevano messo a loro disposizione, era un ragazzo in gamba e aveva già dimostrato di essere ben inserito tra i contatti della zona. Le persone come lui, di supporto a ogni azione, erano fondamentali per la buona riuscita dell’avanzata, e in quel momento Richard ringraziò di aver avuto l’opportunità di conoscere un giovane bravo come Nando.

Igino, ogni volta che passava davanti alla celletta votiva con la madonnina dai piedi scalzi, si faceva il segno della croce per ringraziare di essere ancora vivo e di avere la sua famiglia tutta intera e vicino a lui. Il sopralluogo con i tedeschi era stato meno faticoso di quanto avesse temuto in un primo momento. I tedeschi avevano già altre squadre di gente al lavoro e a lui, che era assieme a un ragazzino di otto anni, riservarono un trattamento meno duro.

Qualche giorno dopo, in un pomeriggio che sembrava più tranquillo degli altri, Igino stava sistemando le verdure nell’orto. Erano le ultime riserve di cibo sopravvissute alle numerose razzie dei militari disperati, e bisognava accudirle al meglio per avere ancora qualcosa da mangiare.

A un certo punto vide avvicinarsi Nando, il ragazzo che faceva la staffetta per i partigiani. Nando aveva grandi occhi scuri e un ciuffo di capelli neri ribelli che faticava a stargli dentro al berretto; aveva poco più di vent’anni e riusciva a comunicare con gli inglesi in modo talmente preciso da essere considerato un traduttore.

Un giorno, qualche mese prima del reclutamento da parte di Richard, ebbe un incontro con tutta la famiglia di Igino, e Mario rimase affascinato da quel ragazzo che poteva parlare con chiunque volesse e che poteva capire tutte le parole che venivano dette. Fu sicuramente in quell’occasione, e dopo quella conoscenza, che in Mario scattò la curiosità di scoprire mondi diversi e di padroneggiare le lingue straniere; un interesse che avrebbe soddisfatto negli anni a venire.

Quel giorno di fine estate millenovecento quarantaquattro Nando non arrivò da solo, come quando era venuto per avvisare dell’imminente arrivo dei tedeschi per un rastrellamento. Quel giorno con lui c’era un sottufficiale inglese che, in un primo momento, rimase in disparte. Nando doveva prima verificare se Igino c’era e se era propenso a raccontare qualcosa.

Il militare inglese s’acquattò dietro al canneto che fiancheggiava la ferrovia. Erano poche le zone che si erano salvate dal disboscamento meticoloso dei tedeschi e quei canneti, cresciuti con le piogge di fine estate, rappresentavano uno dei pochi rifugi per nascondersi agli occhi dei tedeschi.

Tra quelli che approfittavano dei canneti c’era anche Giuseppe, che ogni tanto si nascondeva per osservare in lontananza quello che succedeva. Il suo non era un vero e proprio spiare, semplicemente cercava di raccogliere il maggior numero di testimonianze possibili di quei terribili giorni. Le fotografie le sviluppava e le stampava per conto suo, e non le faceva vedere a nessuno.

Per riuscire a mantenere il suo anonimato, stava ben attento a non farsi scoprire, e si appostava cercando soggetti che non fossero troppo coinvolti o pericolosi. Quel ferroviere italiano che stava dando informazioni agli inglesi non era in una situazione pericolosa. Giuseppe sapeva che i tedeschi erano già andati via dalla zona e di lì a poco sarebbe arrivata la liberazione.

  • Gli alleati vogliono sapere dove i tedeschi hanno seminato le mine lungo la ferrovia; tu sai qualcosa?

Chiese Nando non appena si fu avvicinato a Igino, e dopo essersi assicurato che non ci fossero orecchie indiscrete a portata di udito. Aveva controllato tutta la zona nel raggio di una cinquantina di metri, il diametro di copertura consentito da quel canneto. Chiunque li avesse osservati da più lontano non avrebbe potuto comprendere ciò che si dicevano. Igino si sporse per cercare di vedere la figura nascosta del militare alleato.

La sua paura era che Nando potesse fare il doppio gioco o non dirgli tutta la verità riguardo alla domanda che gli stava facendo. Le storie che aveva sentito raccontare durante lo sfollamento erano terrificanti.

Lui e la sua famiglia più di una volta si erano dovuti rifugiare nelle grotte scavate nel tufo della brughiera a strapiombo sul mare lungo la costa, per sfuggire ai bombardamenti dal mare, alle granate dal cielo e al fuoco delle artiglierie.  Erano tempi difficili, non ci si poteva fidare di nessuno, e le ritorsioni erano all’ordine del giorno.

Igino vide tra le foglie di canna una visiera scura e l’uniforme alleata, così dal profilo di quell’uomo fece un’identificazione sommaria che gli permise, nonostante la discreta mimetizzazione, di fidarsi di quello che gli stava dicendo Nando.

  • Certo che so dove hanno messo le mine, sono andato a scavarle con loro, ma quando se ne andranno questi tedeschi? E quando finirà la guerra?
  • Tra pochi giorni il battaglione polacco libererà la città a sud e tra pochi giorni arriveranno anche i canadesi da queste parti. Hai una cartina dove segnare i punti minati?

La conversazione continuò in presenza di Richard e Igino spiegò, per filo e per segno, quali erano le postazioni strategiche della zona e come i tedeschi le avevano fortificate. Ogni tanto lanciava un’occhiata al militare britannico mentre Nando traduceva le informazioni. Era un bell’uomo, un profilo deciso e dolce nello stesso tempo, disse che faceva parte della Marina Britannica, ma adesso lavorava con i Royal Engineers, e non vedeva l’ora di tornare a casa.

Igino non l’avrebbe mai più rivisto, ma un giorno, quasi vent’anni dopo, riconoscerà di nuovo quel profilo. Impresso nella fotografia appesa a una parete del salotto, nella casa del Berkshire dove lui arriverà, solo e con un inusuale, a detta degli inglesi, cappello in testa, per partecipare al matrimonio di suo figlio Mario.

Le giornate successive a quell’incontro furono frenetiche e piene di belle notizie. Nobili era stata liberata, i Canadesi avevano preso possesso di Gàlino e si stavano allungando verso la Romagna. L’avanzata alleata proseguiva lungo l’asse della Linea Gotica che dall’Adriatico andava fino al Tirreno attraversando gli Appennini. Lungo i fiumi resi paludosi e fangosi dalle piogge e nei paesini arroccati sulle colline preappenniniche, avrebbero incontrato delle difficoltà e una tenace resistenza che li avrebbe fermati fino alle prime giornate di dicembre del millenovecento quarantaquattro. 

In alcuni centri dell’entroterra, oltre ai bombardamenti dal cielo e dal mare per spianare l’avanzata, si sarebbe assistito a una lotta corpo a corpo e quasi all’arma bianca prima di cedere le posizioni. Le armate di Kesselring, comandante delle forze tedesche, erano costituite da giovani ragazzi austriaci che si distinsero per atti di eroismo e per un buon rapporto con la popolazione.

Sull’altro fronte avanzavano le varie divisioni e brigate della compagine alleata, tra le quali figuravano quasi tutte le popolazioni del mondo. A Gàlino in particolare, quando nei dintorni si cominciava già a respirare voglia di normalità e si pregustava il ritorno a una quotidianità perduta, furono soprattutto i soldati polacchi a distinguersi nel contatto con la popolazione.

  • La tua mamma piange se vede come ti comporti.

A quelle parole il ragazzo non seppe resistere, la parola mamma aveva un significato troppo universale e profondo per lui. E non si domandò neppure che cosa volesse intendere la vecchietta che gliele stava gridando in faccia, dopotutto lui aveva chiesto solo qualche uovo.

La moglie di Igino, quando la figlia più grande le aveva detto che stavano arrivando dei soldati, aveva radunato tutte le altre figlie attorno a sé, per difenderle e per proteggersi. Lo sapeva che quei militari avrebbero chiesto da mangiare.

Loro erano i liberatori, certo, i tedeschi avevano lasciato la villa sulla collina e se n’erano andati, ma anche questi giovani alleati avevano fame e lei non poteva permettersi, con cinque figli da crescere, di privarsi di quel poco che aveva.

Il ragazzo polacco, intenerito dalle parole della donna, aveva richiamato il piccolo drappello con cui si stava inoltrando nelle campagne lungo la Linea Gotica ormai sfondata e, con le lacrime agli occhi, se ne andò.  

CAPITOLO TRE

PRIMA INFANZIA

Giò stava ragionando sul posto giusto dove andare a pranzare con tutta la famiglia. La parola festeggiare sembrava troppo sontuosa per una giornata in cui si voleva solo ricordare il matrimonio dei suoi genitori. Alla fine, d’accordo con le sorelle, la scelta ricadde sul locale in collina gestito da una lontana parente.

  • Certo che c’era anche il nonno Igino, non ti ricordi la foto fatta fuori dalla chiesa?
  • Veramente io ho sempre visto solo la foto di voi due. Perché, ci sono altre foto del vostro matrimonio?

Fu così che dopo cinquant’anni venne fuori l’album (oddio poco più di una decina di foto in bianco e nero) del matrimonio di Mary e Mario. Giò era piacevolmente sorpresa e con le sue sorelle e Ricky si divertirono per tutto il pranzo a riconoscere questo o quell’altro parente. Bé, il cappello del nonno Igino era effettivamente strano in quel contesto di frac e tube all’inglese!

  • Te lo dico io come si fa, ecco qua, gli portiamo un gallo e la faccenda si risolverà in attimo.

Mary comprendeva ancora poco l’italiano e quella frase del nonno Igino le risultò difficile da interpretare. Mario era ancora in Friuli a svolgere il servizio militare, obbligo che non aveva adempiuto da quando era emigrato all’estero. Mary si disperava per riaverlo a casa prima che nascesse la bambina. Dopo aver saputo di essere incinta avevano preso la decisione di venire in Italia.

Il servizio militare era stato il primo obbligo che Mario aveva dovuto compiere per mettersi in regola con la sua patria. Ma adesso che stava per nascere la figlia, Mary non vedeva l’ora che quella lontananza finisse. E perché i giovani sposi avevano deciso di tornare in Italia? Perché al momento in cui Mary rimase incinta gli parve logico lasciare la stanza in affitto sull’isola di Gernsey e trovare una sistemazione più decorosa per mettere su casa.

Così scelsero l’Italia e, quando nacque Eva, Mario ancora non aveva ancora assolto gli obblighi di leva. Vissero alcuni mesi con i genitori di Mario e con quella visita al Segretario Comunale, il nonno Igino era intenzionato a liberare il figlio dagli ultimi spiccioli di servizio militare. Tra le carte da giocare a sua disposizione per ottenere il congedo, oltre alla comprovata nascita della nipotina, aveva aggiunto anche il regalo di quel gallo.

Non c’è memoria di capire se quella fu la mossa giusta, fatto sta che Mario rientrò poche settimane dopo la nascita della figlia primogenita. Al parto era venuta ad assistere anche la nonna inglese, che al suo paese faceva l’infermeria e per lei fu naturale venire ad assistere la figlia in quella particolare circostanza. La bambina nacque in casa, come era d’uso a quei tempi, con l’assistenza di una valida ostetrica e il supporto della mamma di Mary.

Qualche mese dopo la sua nascita i genitori decisero di trasferirsi a Milano. Evidentemente la vita gli andava un po’ stretta in quel paesino che era sì affacciato sull’Adriatico, ma ancora sentiva solo il vago d’odore del boom economico dei primi anni sessanta. Quelli erano anni di forte crescita ovunque, ma il benessere vero e proprio era un’esclusiva della grande città.

  • Mamma corri, Paolo s’è rotto il labbro, viene un sacco di sangue!

Eva correva disperata verso la palazzina dove, al terzo piano, abitava la sua famiglia e anche quella degli zii. Giò correva dietro a lei con la paura nel cuore. Erano andati a giocare sulle colline degli scavi, dove stavano sorgendo alcuni palazzi alla periferia di Milano e avevano fatto baruffa con un altro gruppetto di ragazzini.

Gli era stato raccomandato di non avvicinarsi a quei cumuli di terra e sassi che nascondevano molti pericoli, ma Eva e Paolo non sentivano ragioni quando si mettevano in testa qualcosa, e Giò li aveva seguiti suo malgrado.

Adesso che era successo quel guaio si sarebbero presi una bella sgridata. Giò aveva solo quattro anni, aveva poca coscienza di ciò che accadeva e la malizia non faceva parte dei suoi sentimenti. Ma la paura di aver fatto qualcosa di grave, quella sì che la capiva.

Giò era la secondogenita della famiglia di Mario e Mary, e dopo di lei, in quel di Milano, era nata Lia, la terza femmina. In un primo momento i suoi genitori avevano vissuto a Gàlino, il tempo che era servito a Mario per assolvere gli obblighi della leva militare, evitata fino ad allora perché era residente all’estero.

In quel breve periodo di matrimonio nella casa dei nonni, era nata Eva, poi l’intera famiglia si era trasferita a Milano, dove le opportunità di lavoro erano migliori.

  • Mario, se devo proprio dirti la verità io preferisco avere la lavatrice invece del televisore, al limite ci guardo i panni mentre girano là dentro per lavarsi.

Mary aveva già fatto la sua scelta, con tre figlie da crescere era logico che la scelta dell’elettrodomestico da comprare cadesse proprio su uno di quelli che avrebbero alleviato le fatiche domestiche. Nota a margine: non erano stati ancora inventati i pannolini usa e getta!

  • Non abbiamo ancora aperto il salvadanaio delle mance, magari riusciamo a comprarci tutti e due.

Le disse Mario fiducioso.

  • Se anche questo mese ci va bene, forse possiamo mettere da parte qualcosa e il mese prossimo compreremo il televisore.

Quando andarono a vedere nella vecchia scatola per scoprire l’ammontare esatto dei loro risparmi, strabuzzarono gli occhi per la sorpresa. Se lo stipendio serviva per mandare avanti la famiglia e pagare l’affitto, le mance, di fatto, costituivano una seconda entrata altrettanto cospicua.

Quel mese il dilemma televisore o lavatrice era risolto, il prossimo mese si poteva programmare un’altra spesa, o mandare soldi a casa a Gàlino.

  • Carla, scusa, riusciresti a far rientrare la carrozzina con Giò?

Mary si era spinta fuori dalla porta della camera e aveva chiesto alla cognata di rimettere dentro la carrozzina che aveva lasciato fuori sul balcone. Aveva provato a far prendere un po’ di aria fresca alla sua piccola.

  • Finisco un attimo questi asciugamani e arrivo.

Fu la pronta risposta della cognata, sorella di suo marito Mario. In quei primi mesi di vita a Milano le due famiglie vivevano assieme, i rispettivi mariti lavoravano nei ristoranti, uno come cuoco e l’altro come cameriere, e la sorella di Mario faceva la parrucchiera in casa.

  • Ecco fatto, Giò torna in casa.

Così dicendo Carla fece rientrare la carrozzina mentre sistemava l’ultimo asciugamano nel piccolo scaffale.

  • Ma è diventata nera!

Quell’esclamazione uscì dalla bocca di Mary con fervido orrore.

  • La sua copertina era bianca prima che uscisse fuori sul balcone, guarda adesso com’è ridotta! Oh, povera me!
  • Non ti preoccupare, adesso la laviamo subito.

Cercò di rincuorarla Carla ma, in effetti, l’orrore era più per l’aria che aveva respirato Giò, che per quella fuliggine che era rimasta sulla copertina.

La convivenza negli stessi ambienti durò un semestre, poi Carla e la sua famiglia si trasferirono al piano superiore, dove si era liberato un altro appartamento. Pochi mesi dopo a Paolo, che aveva la stessa età di Eva, si aggiunse Anna, stessa età di Lia.

Il film dei ricordi legati ai giochi aveva presentato a Giò quella scena pericolosa dell’incidente occorso a Paolo. L’immagine della vita nelle periferie squallide, con le distese di prati incolti e luoghi che aspettavano solo l’arrivo dell’urbanizzazione selvaggia si era naturalmente sovrapposta.

Giò aveva altri sprazzi di ricordi cittadini, più teneri e infantili, quelli degli anni di frequentazione dell’asilo. I due gemelli che giocavano con loro e che erano grandi e grossi. Giò non ricordava se fossero più grandi di lei o solo di mole più robusta, ma ricordava i giochi nel cortile della scuola materna, sul muretto vicino alla buca della sabbia, e quelli con le sedie da impilare.

Estemporanee di quadretti che si arricchivano dei ricordi tramandati dai genitori. Le tre sorelle attorno al tavolo della cucina a litigare per una banana, le foto in bianco e nero sulla credenza che li ritraevano tutti e cinque in Piazza Duomo con la mano allungata per sentire la pioggia sul palmo.

I vestitini cuciti in casa con la stoffa scozzese blu e verde e i maglioncini di lana che Giò odiava. Il pigiama a pois arancioni che aveva accompagnato il suo ricovero per l’intervento di tonsillectomia all’ospedale di Milano. Giò aveva solo tre anni e l’unico ricordo rimastole era la voglia di mangiare maccheroni dopo l’operazione.