RACCONTI

L’UOMO CON IL CAPPELLO

Un uomo si aggira per strada.

La strada è sempre la stessa, comunque si voglia immaginare la scena.

La scena anonima di una strada come tante altre: case ai lati, ringhiere di giardino, marciapiede da un lato solo, polvere d’asfalto lungo i bordi, nessun’auto in sosta.

Sta fermo all’angolo di un piccolo incrocio l’uomo con il cappello.

Il capello dalle falde corte, di colore grigio sabbia, un cappello che nasconde appena la vista del volto e risalta l’abbigliamento sconforme dell’uomo.

L’uomo porta un impermeabile dello stesso colore del cappello, a volte chiuso e allacciato, a volte aperto e svolazzante; mocassini di cuoio ai piedi.

Ai suoi piedi, ritmati nel passo deciso o fermi impiantati nella sosta, l’asfalto si disegna in piscolle d’acqua quasi asciutte.

Asciutto e magro è l’aspetto dell’uomo, anche se non ne vediamo i tratti dei lineamenti fisici di carne e ossa.

Ossa secche scartate dagli animali randagi scricchiolano sotto i passi svelti dell’uomo; a volte ha fretta, a volte con calma si ferma contro un lampione e accende una sigaretta.

La sigaretta fumata nel rito della sosta non è la prima e non sarà l’ultima, mentre si guarderà attorno.

Attorno a lui non sembra esserci niente da scrutare.

Scrutare l’uomo con il cappello è quello che facciamo noi, ma l’uomo con il cappello è sfuggevole e non sappiamo se è importante lui o l’ambiente che lo circonda.

La strada che attraversa di corsa o il marciapiede dove si ferma.

La pioggia che deve scendere o quella che è già scesa.

La strada non si popola. L’uomo con il cappello è solo. Chi lo osserva è un popolo di gente dietro alle finestre. Un popolo di pensieri e di giudizi.

La situazione sembra tranquilla, apparentemente nessun elemento fa sospettare sconvolgimenti improvvisi; eppure può esplodere da un momento all’altro.

È la coscienza sporca di uno degli osservatori a dare corpo d’esplosività; l’uomo con il cappello non la conosce.

La storia si blocca, la scena resta immobile e la percezione si assottiglia.

Il vento alza una polvere impalpabile dalla superficie ondulata e informe.

Informi sono i pensieri che lo sballottamento della corrente consente; sentirsi in balia d’eventi al di sopra della propria portata annulla la coscienza di sé.

E se si era sentita una parte importante di un tutt’uno ancora più importante, ora non ha senso neppure l’essere.

Essere affondata nel vuoto del niente, nell’aridità delle sensazioni, è stato l’unico appiglio di speranza per continuare a sentirsi.

Sentirsi asciugata e levigata come una particella infinitesimale ridotta a molecola.

Molecola di niente.

Niente aveva lasciato presupporre un esito finale di quel genere.

Generi d’altre possibilità si erano affacciati al suo orizzonte via via che le trasformazioni cui si era dovuta sottoporre avanzavano inesorabilmente affondanti.

Affondare nel mare della desolazione che lascia spazio solo al deserto dell’aridità in cui si trova è stato l’unico modo di pensare di esserci ancora.

Un’ancora di salvezza che le aveva permesso di evitare gli avvoltoi e gli sciacalli; ma ora che si trova desolatamente sballottata di posto in posto, rimpiange di non essere andata a nutrire l’anima di qualche altro essere vivente.

Il vento si fa sempre più forte, folate improvvise la portano continuamente più in alto, quasi a toccare il cielo.

È in uno stato di sublimazione quando comprende di avere raggiunto lo stadio primario della trasformazione.

I pensieri riprendono corpo di vita.

E pioggia sarà.

La scena bloccata riprende vita con una pioggia violenta e calda.

Calda perché proveniente dai cieli africani dove è stata raccolta in polvere e trasformata dai venti in acqua battente.

Il battente della persiana al muro dove l’uomo con il cappello si è appoggiato si scuote con le folate di vento.

Il vento sembra essere diventato protagonista della scena.

La scena dal passato al presente e dal presente al passato non riguarda l’uomo con il cappello, né la strada, né la gente che osserva.

Osservando attentamente il soggetto diventa la pioggia che dall’aridità conservandosi in una particella infinitesimale, ricostruisce e modifica la scena.

Nella scena dell’uomo con il cappello, del bene e del male, non si sa niente; l’uomo con il cappello è un pensiero, è una donna, è il padre o il fratello.

L’angoscia o la speranza.

Il fare o l’aspettare.

L’essere o il non essere.

da Navigando tra le parole L’uomo con il Cappello di Ilaria Gagliardini

elLeACiASseA

La legna scoppiettava nella piccola stufa, un leggero tepore scaldava l’aria e la pietra, vicina alla testata d’angolo, sentiva arrivare quel calore come una liberazione.

Il gelo della notte aveva irrigidito la calce, brinando la facciata esterna, e il sole del primo mattino non riusciva a togliere il senso di freddo come poteva farlo quel tepore interno.

I piedi strisciavano la polvere degli scalini, un vecchio saliva lentamente le scale e prendeva forza per il suo stentato incedere appoggiandosi con le braccia tra gli avvallamenti e i rigonfiamenti dei muri contorti.

I suoi movimenti avevano lo stesso curioso ondeggiamento degli interni irregolari, d’altronde l’età non gli permetteva un’andatura più sicura e regolare, così come non si poteva pretendere una squadratura migliore dei muri, costruiti sulla solida irregolarità della pietra.

Il vecchio stava andando a prendere i bicchieri e il fiasco di vino per iniziare il rituale delle bevute che intervallavano il lavoro. Dopo aver invaso le stanze con il suo aroma, il caffè del primo mattino era diventato un ricordo e l’attenzione dello stomaco si concentrava verso la colazione vera e propria, con pane prosciutto e vino.

I rumori al piano di sotto si confondevano con i fischiettii allegri di coloro che si erano già messi al lavoro; il chiacchierio delle donne intente a preparare grembiuli e coltelli si alzava di tono diventando sempre più acuto fino a raggiungere le risate che accompagnavano le esclamazioni più pittoresche.

Le giornate invernali di pioggia e freddo diventavano ancora più lunghe se non le si faceva scorrere in fretta con quei momenti di aggregazione. Nei periodi in cui la vita si svolgeva principalmente tra le quattro mura domestiche, il gusto di ritrovarsi a vivere insieme i riti della tradizione contadina si accavallava alla necessità di mantenere salde le proprie unioni parentali e di amicizie.

I lavori in campagna erano pochi e avevano lo stesso ritmo del riposo autunnale della piante; i contadini sistemavano i granai e preparavano attrezzi e utensili per la stagione primaverile.

Erano i così detti “giorni della merla”, quelli più rigidi dell’anno, e la neve non avrebbe tardato ad arrivare; quel freddo secco e pungente era indispensabile per rendere ottimale la riuscita della lavorazione delle carni del maiale, quello che era stato ucciso il giorno prima.

La bestia, già scannata e squartata, veniva ridotta in bistecche, braciole e salsicce nei locali vicino alla cantina del piano terreno, dove non c’era stufa o camino a riscaldare l’ambiente. Nulla sarebbe stato scartato dell’animale: la pelle, il grasso nelle diverse forme, le zampe, le orecchie, le parti interne, ogni pezzo dell’animale veniva utilizzato e trasformato in commestibile. Nulla veniva gettato via.

Al piano di sopra il fuoco ardeva nella stufa e qualcuno stava preparando delle fascine per accendere il camino. Nella casa si stava compiendo il rito annuale della pista fatta con le carni di maiale e l’iniziale scompiglio si era trasformato in grande confusione di gente.

Un andirivieni costante di persone e di odori aveva riempito l’aria con il sapore della festa. Salsicce, salami, prosciutti, spallette, da salare e da condire; c’era poi chi si occupava dei budelli da mettere a bagno nell’aceto e che sarebbero serviti per gl’insaccati, chi metteva da parte le reti di grasso per preparare i fegatini: conditi con foglie di alloro e cotti alla brace del camino facevano venire l’acquolina in bocca anche a un vegetariano.

A mezzogiorno le prime bistecche furono messe sulla griglia e vennero gradevolmente apprezzate da tutti coloro che si erano impegnati nel lavoro; più tardi il fuoco vivo del camino sarebbe servito per scaldare il latte nel paiolo, e poi il dolce profumo del migliaccio avrebbe dato il suggello definitivo a quel rito.

“Un volo rapido e leggero, librarsi nell’aria senza muovere niente, sollevarsi ad altezze irraggiungibili e avvertire un calore diverso, che non si conosceva prima. Restare sospesi quel tanto che basta a comprendere la differenza, attendere il passaggio di corpi o gli svolazzi dei vestiti e dei tessuti per scendere piano piano e tornare alla propria normalità. Camminare lungo l’angolo che forma il muro con il pavimento, camminare veloce come se si dovesse arrivare a un appuntamento.

Il granello di polvere cade e rotola sul pavimento.
La vita trascorsa durante il giorno lascia l’impronta di quello che non si ritrova al suo posto l’indomani. Esseri senza ombra cominciano a vagare, esseri senza impronta, senza alito che esce dalla bocca: nebulose di spirito. Possono essere l’odore, oppure il colore, oppure il modo di muoversi, oppure gli atti che si compiono. Ognuno di loro è una parte di noi: la noia che ci assalirà, la puzza che faremo, la zoppia che ci accompagnerà, il nostro odio, il nostro amore, il nostro nervosismo, il nostro attivismo, la nostra pietà.

Il branco si trova magicamente unito, quello che è stato e quello che sarà si fondono in un unico gruppo di sensazioni da sballo che iniziano a serpeggiare, qualcuno movimenta gli ultimi aliti di fuoco che salgono dalla brace abbandonata.

Sono nuvolette di polvere grigia che aleggiano sotto l’aiola bassa del camino; sarà un refolo di vento a giustificarne lo spostamento l’indomani. Le anime di pensiero non si preoccupano di ciò, si divertono a giocare con le sensazioni che sentono salire da ogni angolo della casa buia e assopita.

E quello che vivremo il giorno dopo sarà costruito su quello che abbiamo fatto e lasciato impresso il giorno prima. La popolazione di spirito che anima la notte, e che raccoglie gli aliti che salgono dalle pietre e dalla strade, dalle piante e dai marciapiedi, dai muri e dalle finestre, è una popolazione fatta di inconsci e di ciò che s’imprime nel mondo immobile durante il giorno. Una popolazione che vive tra passato e futuro, tra quello che è stato, ed è rimasto impresso, e quello che dovrà succedere e noi avvertiamo con i sensi. La popolazione che anima la notte.”

La primavera si stava avvicinando, i giorni della merla erano passati da un pezzo e quel freddo pungente sembrava lontano almeno quanto quelle giornate corte e buie d’inverno. Tuttavia quei mesi non erano trascorsi in fretta e il tempo si era stranamente fermato restando ancorato ai ricordi e ai momenti di gioia legati ai preparativi e all’uccisione del maiale.

Nessuno era tornato a vivere nella casa e le ore si erano trasformate in lente, pesanti e lugubri veglie di morte senza che alcunché le animasse; nessun alito di polvere si alzava, nessun fuoco s’accendeva nella stufa.

Dopo le giornate piene del viavai continuo, il calore della gente aveva cessato di aggirarsi negli ambienti e la casa stava facendo la fine riservata ai luoghi abbandonati. Il silenzio ormai regnava imperante, il tempo trascorreva senza interruzioni, mesto e funereo, e nessun volo di polvere permetteva sensazioni diverse dall’immobilità totale; la notte trascorreva identica al giorno appena terminato e solo il tepore del sole cambiava l’aria dando un minimo di sollievo.

Arrivò l’estate, caldissima e afosa, durante la quale neanche i temporali estivi riuscirono a scrollare di dosso a quelle rattristate mura il senso di aridità e abbandono che la siccità e la solitudine gli stavano incollando come un ineluttabile sudario.

Finalmente arrivò di nuovo l’autunno, stagione di ritiro e di riflessione durante la quale le persone tornano a vivere dentro casa; quell’anno, però, quella stessa stagione umida e intima, non portò un ritorno di vita casalinga, al contrario, consolidò la certezza dell’abbandono definitivo.

I primi tempi furono durissimi, un lascito in quelle condizioni, da un momento all’altro, era difficile da accettare; tante persone erano passate sotto gli stipiti delle sue porte, e lei aveva diligentemente smaltito il peso di quelle presenze senza mai porsi problemi sul carico gioioso o meno di quel compito.

Ogniqualvolta si svuotavano i locali bisognava trovare la collocazione giusta per ogni sensazione e ogni movimento che aveva animato la presenza delle persone, ma quando restò sola non ebbe neppure il tempo di premunirsi per lasciare qualche alito di sentimento un po’ più a lungo dentro di sé.

Se almeno la vecchietta avesse sofferto di una lunga malattia, ci sarebbe stato spazio e tempo per organizzare una chiusura in bellezza e lasciarsi qualche residua nebulosa di spirito nascosta nei battiscopa. Invece la morte era arrivata fulminea e crudele senza lasciare neppure un po’ di tempo per cautelarsi.

Portarono via la vecchietta all’alba di un mattino lucido e tirato, dopo che la notte diverse persone erano state a pregare sul cadavere dell’anziana donna. Non si capiva quello che stava succedendo poiché la leggerezza dei passi e dei movimenti delle persone non faceva presagire l’arrivo di qualcosa di triste, evidentemente per loro l’addio era un saluto benevolo a chi aveva dato e avuto dalla vita; ma per lei che restava abbandonata, il significato era la morte definitiva.

Nessuno tornò a sistemare la casa per cui non ci fu neppure la possibilità di aggrapparsi a qualche animella di pensiero in extremis.
Trascorse quasi un anno prima che qualcuno si fece vivo; fu il figlio dell’ultima proprietaria che venne a trascorrere qualche serata in compagnia di amici.

Quelle capatine sporadiche erano meglio di niente, anche se non avevano nulla a che vedere con le giornate di vita e di allegria che si ricordavano fra quelle mura. C’era qualcuno che poteva rendersi conto di quanto abissale fosse la differenza d’importanza tra la vita di una persona nel suo ambiente e la vita di una casa e il suo ambiente, che delle vite di persone ne trascorreva non una, ma tutte?

Dopo qualche mese di frequentazione, comunque, i visitatori smisero di venire e la casa si trovò di nuovo completamente sola; l’essere stata definitivamente abbandonata fece rimpiangere anche quei piccoli spiccioli di attenzione e non le era di nessuna consolazione constatare la familiarità con la triste situazione delle altre case.

Gli anni iniziarono a scorrere, contando inesorabilmente a ogni svolta del calendario l’abbandono di un pezzo del centro storico del piccolo paese collinare. Alcune furono frequentate per un certo periodo da visitatori occasionali, quegli inguaribili romantici che tardavano a disfarsi del valore affettivo delle mura ereditate.

Quanto a preoccuparsi effettivamente dello stato di degrado cui andavano incontro le strutture, non c’era verso di trovare interesse da parte di quei frugali passanti. Neppure la compagnia che godeva la pace e la serenità di quei posti durante il fine settimana riuscì a trasformarsi in una costante che potesse garantire la ripresa della vita: il vuoto, assieme al buio assoluto, regnava in tutte le stanze.

Le stagioni si alternavano quali uniche artefici del volto e dell’aspetto generale del paese e il segno che lasciava il trascorrere del tempo costruiva un abito indelebile su quella cerchia di mura abbandonate. Nessun luccichio di luce riflessa spiccava dalla desolazione e i pochi raggi di sole che penetravano non trovavano alcun riscontro che potesse dare di nuovo splendore alla vita. Le ultime soffiate delle chiacchiere portate dal vento e rubate agli ultimi visitatori restarono coperte da un velo plastificato di niente che sapeva di morte.

” Il ragno e la desolazione del niente: nessun pezzo di carne rimasto, nessun alito di polvere che si lascia cadere dopo essere stato in bilico. Nulla può dare vita al luogo abbandonato. Nessuno spirito muove l’aria, né di giorno, né di notte e il ragno agonizza e muore nella solitudine della sua ragnatela vuota. Il niente regna sovrano, il vuoto assoluto s’è impossessato dell’ambiente. E quando il vuoto s’impossessa di qualcosa, c’è sempre da temere che qualcuno di non autorizzato lo vada a riempire. Il fantasma dell’indifferenza per primo. Dietro potrebbe arrivare quello della superficialità, poi quello del menefreghismo, quello della noia, quello della sciatteria, quello dell’uniformità, quello …

Un attimo e il branco torna di nuovo compatto e i balli e gli sballi si articolano senza distinzioni tra il giorno e la notte. Gli spunti delle sensazioni partite dalle strade e dai marciapiedi, dai muri e dai soffitti, dalle pietre e dai coppi, non esistono più in quanto tali perché lasciati dalla vita che vi scorre sopra. Esistono in quanto anime dei fantasmi del vuoto, del niente, dell’abbandono, del nulla dentro a una materia che non può vivere. E non ci sono distinzioni tra luce e buio, tra gioie e dolori, tra vita e morte, allo stesso modo in cui non ci sono spostamenti di cose o di polveri che poi debbano essere in qualche modo giustificati.’’

La casa abbandonata avrebbe avuto voglia di un’ordinarietà di abitazione quale quella per cui era stata costruita; l’andirivieni di fantasmi di ricordi, senza alcuna vita propria, non sollevavano alcun peso di sentimento e non muovevano alcun alito di polvere.
Un giorno si alzò un forte vento da est, un vento fresco, secco e nuovo, nessuno lo aveva mai sentito; le polveri iniziarono a muoversi e con il loro ballo diedero il giusto benvenuto ai ragazzi che stavano arrivando.

Cercavano un posto che fosse di loro esclusiva frequentazione e dove potevano fare quello che volevano senza doverne rispondere ad alcuno; scelsero la casa abbandonata come base per tenerci le scorte, ma poi giravano per l’intero paese increduli di vedere quei rifugi dell’anima lasciati a loro stessi e disponibili per loro che non avevano altro che posti dove c’era gente che pretendeva comportamenti e rispetti assolutamente immeritati. Si lamentavano di costi e di guai cui porre rimedio per le loro tane cittadine, quando a pochi chilometri c’erano quei beni di dio abbandonati e gratuiti! I giovani non avrebbero mai compreso i loro padri attraverso quelle strade di negazione.

La casa abbandonata che avevano scelto era quella nel miglior stato complessivo che si potesse trovare nel borgo sperduto, aveva le stanze grandi, i coppi più belli, le scale come quelle di una volta; fu gradevole il modo con cui cominciarono la loro occupazione, pulirono, spolverarono, lucidarono, portarono qualche mobile e nuove luci.

Qualcuno si divertì da subito a sporcare i muri, ma non erano gesti di sporco, erano parole o frasi, riti, poesie, disegni. Allora non c’era da arrabbiarsi o da sentirsi offesi, perché quello che scrivevano erano degli ulteriori atti di riguardo nei suoi confronti.
Quando fumavano si capiva la differenza di quello che succedeva nell’aria, le prime volte sembrò di avere l’intonaco che si staccava dai muri; ma poi, facendoci l’abitudine, cominciò diventare piacevole, quasi quanto l’imbiancatura da nuovo!

Sarebbe stato bello imparare anche a bere, ma i liquidi non s’inserivano nell’aria come il fumo, e se ne doveva restare fuori; a meno che quei suoi nuovi e simpaticissimi inquilini non riservassero anche la sorpresa di un aerosol di birra! Che sballo sarebbe stato!
Un ragno camminava sulla spalla della giacca, venne scacciato con un cicchetto delle dita, che poi tornavano ad arpeggiare sulla chitarra. Note, musica, spizzichi di pezzi e prove per avere chiara l’idea della canzone che dovrebbe venire fuori. I bicchieri si muovevano da un tavolo all’altro, si riempivano e si svuotavano, non cadevano mai; era finita la notte, bisognava andare a preparare il giorno successivo, e nessuno ne aveva voglia. Si spegnevano le luci, orge di ciao e buona intersecavano l’aria sovrastando gli innumerevoli suoni abbandonati.

Il nuovo splendore raggiunto dal borgo rivitalizzato era visibile e quasi tangibile; le notti non erano più uguali al giorno e quando i ragazzi se ne andavano, polveri e pietre iniziavano i loro balli di spirito scaricando quello che avevano accumulato. Allegria e spensieratezza trovavano lo spazio per esorcizzare i mille problemi che i ragazzi si portavano dentro; e se questo ridava vita alla casa, allo stesso modo creava un ambiente che avrebbe ricaricato e dato un senso a quei ragazzi.

” Scatta l’ora degli spiriti, di quello che è stato e di quello che sarà. Il ragno macina i suoi chilometri e gode delle passeggiate di nuovo ricche di polveri e di insetti. Bestemmie, pianti, urli, gioie, carezze; si animano come se fino a quel momento avessero vissuto di nascosto e poi, improvvisamente, avessero trovato il nutrimento per tornare a vivere. In mezzo al branco piccoli scontri di sentimenti contrastanti creano scariche elettriche fosforescenti.

Qualcuno se ne va attraversando il muro con aria scontenta, vorrebbe restare, ma non ha lo stesso brio e la stessa forza. Polvere comincia ad alzarsi, come ai bei tempi si spostano aliti di niente giustificati solo dal loro esistere. Nulla sarà al suo posto l’indomani, anche se pochi se ne accorgeranno. La visibilità materiale è una componente che non ha alcuna importanza; ciò che conta è far uscire tutto, sballare completamente, godere del proprio spirito. Annullare qualsiasi collegamento o contatto con la vita in chiaro, con la vita dai termini e dai confini sconosciuti. Non importa se l’indomani non ci sarà, se l’indomani non si vedrà, se quello che succederà non sarà riconosciuto come figlio della notte: quello che è stato è superato e quello che sarà stende il suo programma senza essere riconosciuto.’’

Un giorno arrivò un signore anziano, entrò dal portone senza scavalcare la finestra, come invece facevano i ragazzi che ne avevano lasciate alcune accostate per facilitare l’ingresso.
L’uomo anziano si guardò attorno, prima con disgusto, poi incuriosito da quello che trovava; alla fine scrollò le spalle e se ne andò.

Trascorse qualche giorno e la casa continuava la sua vita da “occupata” immedesimata in quella condizione; se una sera i ragazzi tardavano entravano in moto una serie di preoccupazioni simili a quelle della madre che non vede rientrare i suoi figli. Se poi arrivavano tristi, o non fumavano, o bevevano troppo, lo sconforto faceva scorrere polvere di liberazione per dare una prova tangibile del supporto alla loro condizione; erano le volte in cui non cigolavano i cardini e non si scollavano i battiscopa.

Quella sera i ragazzi arrivarono molto presto, prima del buio, si misero nella stanza più grande incuranti del sole che splendeva fuori e del fatto che fosse più caldo che dentro. Ammucchiarono ciò che fino a quel momento costituiva il loro arredamento e lo misero lungo il corridoio di fronte al portone d’ingresso.

Arrivarono alcuni uomini assieme al vecchio che qualche giorno prima era venuto a far visita alla casa abbandonata; dall’esterno cominciarono a chiamare i ragazzi e in poco tempo la discussione si animò molto vivacemente. Il più agitato di tutti sembrava proprio l’uomo anziano.

A un certo punto non ci fu più spazio per le parole, e qualcuno gettò qualcosa contro qualcun altro; da quel momento non si comprese più nulla e quello che prima poteva essere un interrogativo da porsi in seguito diventò esclusivamente una richiesta di pietà nei confronti di quelle persone. Forse non se ne rendevano pienamente conto, ma con quelle baruffe stavano provocando dei seri danni strutturali. Perché dovevano litigare in quel modo insulso e controproducente? Era la casa il motivo di quella discussione tanto veemente?

Erano trascorsi anni e anni di assoluto abbandono durante i quali nessuno si era preso cura delle vecchia mura, né come struttura, né come presenza; ora che qualcuno era finalmente tornato distruggeva ogni cosa in nome di una cartacea proprietà. Se continuavano di quel passo ben presto non ci sarebbe più stato nulla di concreto su cui disputarsi la padronanza.
Quegli spazi enormi, sufficienti a contenere decine e decine di persone, ora non bastava a contenere l’egoismo di quelle persone!

Gli spiriti che viaggiano nella notte e che al mattino ci fanno ritrovare le cose in un posto diverso da dove le avevamo lasciate e quelli che vagano per le strade e si rifugiano a dormire nelle macchine; un mondo di profumi, odori, puzze, colori; sensazioni completamente diverse e opposte a quelle del giorno. The dark side of life, for every one. Fanno esattamente quello che facciamo di giorno, ma all’opposto e all’oscuro. Se ci alziamo di notte li vediamo fare quello che faremo il giorno dopo.

Quello che serpeggia sotto alle nostre vite è quello che fanno e noi non riusciamo a completare di giorno: i sogni che viaggiano sulle ali dell’inconscio libero e che cercano di concretizzare i desideri. Quando la casa è abbandonata, quando le strade sono vuote, quando i camini sono spenti, quando le finestre non si aprono, quando la polvere non si alza … la vita non esiste più, né di giorno, né di notte.

Quello che resta è solo la violenza della notte per sfogare le proprie repressioni; muoversi nudi sotto impermeabili leggeri, salire sull’auto e viaggiare a fari spenti; tanto non si vìola nessuna legge, tanto non si danneggia nessuno, non si creano precedenti. Paure e angosce da affrontare a muso duro, andando forte con l’auto incontro al proprio destino, perforare il muro della notte e della foschia. La stessa foschia che vieta alla nostra vita di vivere chiaramente, di vivere per intero. E non s’incontrano ostacoli, non si batte la testa; perché la notte è libera e la foschia nasconde tutte le paure.

Spingere il piede sull’acceleratore e andare a tutto gas. Liberare l’inconscio di quelle che sono le voglie da soddisfare senza dover rispondere alle costrizioni dei muri psicologici costruiti dentro. Vivere senza memoria, senza passato né futuro. Solo il presente e via.
Questi nostri esseri che vivono di notte raccolgono l’oblio dell’abbandono totale, della sbornia completa, del non pensiero assoluto. Il paese abbandonato racchiude le nostre paure di anime abbandonate dalla vita e costrette a quotidianità che uccidono.

E il giorno diventa uguale alla notte, con nebulose di spirito che viaggiano dimentiche di ogni sentimento, piene solo di inconsci da sfogare senza senso.

Racconto di Ilaria Gagliardini pubblicato su Bookcafè.

IL MENDICANTE

Mendico comprensione. Mi aggiro, brancolando tra i miei pensieri e le risposte che non ottengo, nei meandri della mia mente sciupata. Come un mendicante cieco, che si sposta tentoni tra muri conosciuti e persone sconosciute che occupano quello spazio delimitato, così io vivo in questa stazione sotterranea.

E così, senz’altro supporto che non sia la semplice volontà, cerco di trovare nel posto sbagliato e nel modo sbagliato, una strada che possa essere illuminata da un minimo di comprensione.

E la mendico, la comprensione, la chiedo in carità, o per carità, purché sia donata in impeto di anima e di mente. Col dono cioè dell’intelletto e non solo del semplice dare per liberarsi di un ingombro. Non mi basta che sia  la pura compassione a muovere un’anima buona.

Ci sarà pur qualcuno in questa squallida stazione che può ragionevolmente prestarmi un pochino di attenzione da tramutare in comprensione!

E cosa me ne farò io, poi, di quella comprensione. Niente. Come niente è questo scrivere. Ma un cesso di una stazione può ben ricevere il niente.

Raffiche di vento caldo investono il marciapiede dei binari.

Il treno sotterraneo è simbolo di una vita di sottosuolo, è la determinazione del proprio vivere ai piani inferiori.

Appartengo alla categoria di persone che viaggiano nel sottosuolo, adopero i loro vestiti, ho il loro modo di fare. Svolgo la loro stessa vita. Ma non appaio mai in superficie, non esco mai da questi binari sotterranei. Nessuno lo sa.

Mischiato in mezzo a loro nessuno si accorge che non salgo mai lungo le scale mobili e non mi lascio mai trasportare dai nastri comunicanti; nessuno si accorge di questo mio essere ai margini dell’ambiente che li circonda.

La gente come me (che non è come me), viaggia nei sotterranei per riapparire in superficie e mischiarsi alla vita dei quelli che stanno e viaggiano sempre sopra; come se d’incanto tutte le differenze sparissero o non fossero mai esistite.

Per loro non c’è una verità che delimita il mondo degli uni e quello degli altri. Semplicemente è una questione di mezzi. Non di scopi né di fini. Semplicemente mezzi diversi. Treni sotterranei oppure ovetti volanti.

Trascorro le giornate da una stazione all’altra, tra un treno e l’altro. Come un mendicante. Al giorno d’oggi non ce ne sono più di mendicanti, almeno non quelli di una volta. Quelli senza braccio o senza gamba che mettevano un cappello alla rovescia sul marciapiede, scrivevano due righe su un pezzo di cartone e poi si stendevano in un angolo aspettando l’elemosina.

Ecco, quel tipo di accattone non esiste più. Esisto io. Che mendico comprensione. Uno sguardo, un sorriso, un lampo di intelligenza da poter scambiare con una qualsiasi delle persone che viaggia nel sottosuolo e che possa capire il mio stato.

Purtroppo raccolgo poco. A volte solo uno sguardo più soffermato, che vorrebbe aiutare la mente che ci sta dietro a sciogliere il dubbio: “ti conosco?”. Nulla più.

Ogni tanto mi piace andare a curiosare sui treni, vedere quello che succede tra la gente come me (che non è come me) quando si affanna a scendere per poi risalire, per poi andare incontro al continuo destino di negazione delle proprie aspirazioni. Nessuno di loro potrà mai arrivare a permettersi un ovetto, o un semplice biglietto di aerobus. Viaggeranno in eterno sotto terra.

Certe volte mi viene voglia di uscire, non per andare a un lavoro, ma per fermarmi alla stazione di sopra, quella dei mezzi volanti. Tanti anni fa ci avevo lavorato. Quando le costruivano. Poi sono sceso e non sono più risalito.

La voglia di vedere come sono adesso, quelle stazioni che io stesso ho contribuito a far nascere, non diventa mai un bisogno impellente e si spegne col nascere della fobia dell’esterno. Potrebbe essere uno spettacolo interessante stare a guardare l’andirivieni di ovetti, gli agganci in aria, le scale di appoggio, lo smistamento ai nastri comunicanti.

Certo le stazioni, e proprio per il bello che le ho inventate io, sono strutturate per evitare la calca e gestire al meglio ogni situazione di ressa di gente. Le scale d’appoggio sono singole, anche se l’attracco avviene ai pali multipli. I nastri comunicanti sono tarati per il trasporto di un numero fisso di persone e per uno spostamento confortevole.

Sicuramente tutti i giochi d’incontro, di scontro, di sguardi e di ressa che si vedono nei sotterranei fra le persone come me (che non sono come me), nelle stazioni in alto, in superficie, sono limitati o inesistenti.

E poi la gente che frequenta quegli spazi è diversa da noi sotterranei, vive  a un livello più alto e si comporta differentemente da noi qua sotto.

Il pensiero si perde mentre cammino lungo il marciapiede, ma non posso stare fermo, mi scoprirebbero. Tutti devono avere una meta e un luogo dove andare. E poi non ci sono panchine dove sedersi o sdraiarsi e l’unico modo per riposare le gambe è salire su un treno.

Adesso mi conviene salire e fare un giro a spiare qualcuno.

Appena entrato l’occhio cade su un giovane di sane speranze. In questo momento non sa dove guardare, se dritto davanti a sé o di fianco verso il finestrino. Un paesaggio innevato scorre al di fuori di esso, ma lui sa che non è un paesaggio vero.

Ha solo sbagliato scompartimento, doveva scegliere quello precedente, allora avrebbe visto scorrere la primavera, come realmente fuori era. Ma non si può pretendere la perfezione in ogni istante della vita e ora deve  accontentarsi della comunque bella immagine invernale.

Al suo fianco l’altro passeggero sembra immerso nella lettura del libro e concentrato nell’ascolto delle cuffie. Anche il mio soggetto ha le cuffie per l’ascolto, ma l’ambiente attorno lo distrae continuamente. Non vede chi sta seduto sul sedile anteriore e su quello posteriore e dal suo modo di comportarsi pare sia sicuro di essere tra due persone dell’altro sesso.

Il suo sguardo inizia a perdersi, ecco, forse adesso l’ascolto comincia a fare breccia nel suo pensiero, oppure si è finalmente rassegnato al paesaggio di fuori. I suoi occhi si perdono nel finestrino, ma invece di seguire lo scorrere delle immagini, cerca il riflesso delle persone che sono attorno a lui.

Lo scompartimento è silenzioso, solo brusio di materiale elettrico, il treno scorre su binari sotterranei, è velocissimo, trasporta pendolari operai e impiegati di primo livello. Non è cambiato molto rispetto agli operai e agli impiegati di qualche decennio fa, quelli di allora erano forse più ammassati e meno comodi nel viaggio, ma almeno vedevano il mondo fuori.

Quelli di adesso devono accontentarsi del bel virtuale che ogni scompartimento propina in modo diverso. È cambiato il mezzo, è diverso il modo, ma il loro aspetto, i loro comportamenti, sono sempre gli stessi; uomini che cercano donne, donne che si fanno abbindolare dagli uomini, disgraziati che non trovano mai una loro dimensione. Cambiano i modi, ma i protagonisti e il risultato sono sempre gli stessi.

Il soggetto, quello che ho deciso di seguire nel viaggio dalla mia stazione fino alla sua destinazione, è una persona giovane, sicuramente non un semplice operaio, ma neppure uno destinato ai quadri dirigenti.

Si dice che alcuni di loro ogni tanto scendono ai treni per conoscere la vita inferiore, ma sono casi rarissimi e facilmente distinguibili. Il soggetto non è uno di quelli. Si vede dall’occhio quasi spento.

Si sta alzando, siamo arrivati alla sua meta. Mi alzo anch’io; ho cercato di incrociare il suo sguardo nella speranza di mendicare un po’ di comprensione, ma quello di rimando non mi ha neanche fissato per capire se mi conosce.

Si aprono le porte, la stazione non è una di quelle frequentate, siamo solo in quattro davanti all’uscita. La curiosità per sapere a quale mondo appartiene il soggetto si affaccia. Il nastro sotto ai nostri piedi tremola un po’, forse per il carico scarso. Due vanno verso le toilette.

Il soggetto continua e io dietro di lui. Sale la scala mobile di Accademia. Forse ho beccato uno studente!

Ce ne sono altre tre di scale da prendere prima dell’uscita in superficie e avrò tempo al prossimo snodo a girare per tornare indietro; lo sguardo mi cade sui suoi pantaloni, lenti in vita e troppo lunghi in fondo. Formano una sacca sopra alle scarpe. E la sacca sembra piena di roba. Va a finire che ho incontrato un altro mendicante!

Distratto dal dubbio, col pensiero pieno di lui, a malapena avverto l’urto sul mio fianco; qualcuno ha fretta e vuole correre più veloce delle mobili. Intanto il primo snodo se n’è andato senza che io abbia fatto in tempo a girare indietro.

Le sue scarpe sono di cuoio vecchio, di buona fattura, ma usate molto. Mi viene voglia di aggredirlo, portargli via tutto e chiedergli i perché della sua vita. Anche la maglia gli cade addosso come se fosse un capo d’abbigliamento non suo. Troppo largo sulle spalle, troppo lungo nelle maniche, troppo liso il collo. Porta una borsa a tracolla, anch’essa di cuoio vecchio, come le scarpe. Continua ad ascoltare musica, interagisce con essa e perde lo sguardo all’orizzonte.

Distrattamente con la mano destra tira fuori un oggetto dalla borsa. Non faccio in tempo a vedere cos’è che un lampo di luce mi acceca. Ho perso il conto degli snodi e improvvisamente mi trovo sbattuto in superficie.

Che dolore agli occhi. Il soggetto ha fatto in tempo a proteggersi  e con quella mano distratta si è procurato gli occhiali scuri.

Scendo al volo dal nastro comunicante, il soggetto prosegue verso la sua meta, ma io non posso stare qua sopra e devo trovare subito la scala per scendere. Cerco di proteggere gli occhi con la mano, ma per capire dove andare sono costretto a tenerli aperti.

Sono in una piazza, snodi di nastri comunicanti si trovano a ogni angolo e per il resto nessun altro mezzo di trasporto si muove a terra. Porto lo sguardo in alto, non posso farne a meno; un po’ per vedere dove vanno a finire le costruzioni che creano gli angoli della piazza, e un po’ per scrutare qualche ovetto.

Poi lo sguardo si ferma alla mia altezza, incrocio le persone sui nastri e quelle che sono a piedi attorno alla piazza. Poche sono le persone come me (che non sono come me) che si aggirano, più numerose sono quelle che non scendono mai ai treni.

La disperazione angosciata della fobia dell’esterno mi assale improvvisamente, non riesco a camminare dritto, le mani stringono forte l’indelebile che mi porto sempre dietro nella tasca della giacca.

La smania di scrivere su un muro s’impossessa di me come sfogo all’ansia; mi avvicino alla prima costruzione che vedo e comincio a sporcare la parete lucida. Poche parole, imprecazioni di sfogo; il tempo di rimirarle e quelle scompaiono magicamente assorbite dal materiale della facciata.

Me l’ero dimenticato! Ecco un’altra differenza tra sotto e sopra. Giù tutto resta sporco, su c’è addirittura l’autopulizia! Nessun segno di passaggio, nessuna modifica di assetto per il passaggio di gente o di mezzi. Tutto resta com’è.

Inspiro a pieni polmoni, l’aria pulita e profumata è la stessa che si respira sotto da noi; l’ansia sta per diventare disturbo fisico e questa constatazione mi crea ulteriore disagio. Devo trovare il modo per tornare giù.

Alzo lo sguardo per identificare un luogo, per capire dove possa trovarsi un’altra stazione sotterranea, per sapere dove devo andare. Purtroppo non ci capisco niente, i segni sono convenzionali e non in lingua; me li sono persi tanti anni fa. Seguo l’istinto e vado dietro ad alcune indicazioni verdi.

Eccola lì, me la ritrovo davanti, il mio progetto diventato stazione, la mia creazione trasformata in luogo d’approdo per ovetti. È tutto come era stato previsto, i pali di attracco, i nastri comunicanti, le aree di smistamento.

Solo un fatto m’incuriosisce, vedere come hanno strutturato i servizi. Ricordo che dibatterono molto sul fatto che non dovessero essere presenti cessi o posti dove qualcuno potesse fermarsi per un ristoro.

Ai treni già esistevano certe strutture e si è preferito lasciarle stare (per mia fortuna). Non vidi mai l’effettiva realizzazione delle opere. Adesso che ci sono di fronte la fobia dell’esterno lascia spazio alla curiosità di una cosa ormai scoperta.

Salgo sul nastro comunicante che mi porta allo smistamento, ma allo snodo non riesco a scendere, sono impedito da fasce di nastri che delimitano i passaggi.

Non ci sono neppure i cessi! E muri puliti dappertutto. Torna prepotente l’angoscia, la sensazione di vuoto e di niente, la voglia di scrivere e di sporcare le superfici lucide.

Devo tornare di sotto. Ci sarà un nastro che mi collega  ai treni. Sto cominciando a sudare, qualcuno vicino a me lo nota e si scansa. Stringo l’indelebile nero sempre più forte. Incrociamo lo sguardo con quelli che vengono dall’altra parte e fulmineamente ci riconosciamo. Io e lei. Mendicanti.

Non possiamo fare nulla che non sia solamente una nostra constatazione interiore, qualsiasi intenzione ci farebbe scoprire subito. Dobbiamo limitarci a incrociare le nostre traiettorie finché non riusciremo a prendere la stessa via.

Sarà una mendicante di sopra, delle stazioni di volo? O sarà una come me (che è una come me)?

Mi si rompono le scarpe sul tallone, vorrei aver aggredito il soggetto per avere le sue scarpe di cambio. Invece inizio a ciabattare con le mie e mi accorgo che non è proprio un bel sentire.

Tra poco la incrocerò di nuovo. Prima ci siamo sfiorati le mani. Al prossimo snodo salgo sul suo nastro.

DI  PRANZI   E   DI   CENE

Ho sempre creduto  nella dieta dissociata: tutti carboidrati o tutte proteine. Mangiare cibi costituiti esclusivamente dai primi a pranzo, e dai secondi a cena.

Nei periodi in cui limitavo quantità e condimenti, la dissociazione si abbinava a una altrettanto discreta dissociazione con i chili di tropo. Purtroppo mantenere la cinghia stretta è per me molto difficile: mi piace cucinare e adoro il rito del pasto.

Non riesco a rinunciarvi del tutto, quindi mi accontento della semplice dissociazione evitando gli eccessi al ribasso della forte riduzione di quantità e di condimenti. E mi mantengo sufficientemente in forma!

L’unico insinuante dubbio sulla validità della mia dissociazione è dato dalla LANDA di pane consentita al pasto serale; è un  dubbio che si trasforma in interrogativo nascondendosi  tra la memoria e il pasto.

E in maniera subdola diventa risposta premiante dello sgarro fatto: ma sì, una fetta di pane con il caciucco ( che è proteina di pesce di cui ci si può abbuffare) è consentita anche in dieta  stretta, è l’eccezione che premia la dieta. Poi quella fetta in più diventa standard, non più optional di pesce. E al ritorno del caciucco in tavola la fetta in più diventa una seconda e una terza, e salta tutto il castello della dissociazione.

Lo stravizio colpisce di sera, quando sono più vulnerabile e il danno è più difficile da limitare. Allora ho pensato: e se inverto la dissociazione e faccio tutti carboidrati la sera e proteine a mezzogiorno?

A parte la difficoltà di dover cambiare i ritmi di cucina, le abitudini di lavoro eccetera eccetera, il dubbio sulla teoria dell’inversione si mescola alla scusa- accusa di essere solo uno stratagemma. 

E il dilemma,  non traducendosi  in ricerca di soluzione pratica, resta a livello psicologico.

Cosa ho fatto tutt’oggi?

Niente.

Anzi.

Tutto.

Ho dimagrito.

Nessuno rida.

È un lavoro faticosissimo dimagrire. Concentrarsi sulla perdita di peso del nostro corpo, stare senza mangiare e non pensare al prossimo appuntamento con il cibo comporta una notevole dispersione di energia.

La gente paga per poter dimagrire e sicuramente sarebbe disposta a pagare qualcuno che ci pensi a farlo. Quindi il mio aver pensato di dimagrire è un vero è proprio lavoro.

Quanto alla redditività di questo lavoro ho i miei dubbi.

La bilancia nega ogni mio entusiasmo.

LA MASCHERA DI FANGO

Acqua calda, deve scendere acqua caldissima altrimenti non riesco a lavarmi; alzo lo sguardo allo specchio, l’immagine riflessa non mi piace affatto.

Due occhi stralunati e marroni con tanto bianco attorno; se alzo la testa ancora un po’ vedo anche le labbra, spropositate e grosse chiuse dentro la maschera che ho applicato al viso.

Guardo l’acqua che scorre e infilo un dito sotto il getto; ancora non è calda abbastanza. Se dovesse diventare bollente basterà muovere il mix verso quella fredda per ottenere la temperatura ideale.

Rilancio lo sguardo verso lo specchio, di nuovo la maschera marrone-grigio mi guarda di riflesso. Resto incantata.

Tutto questo lavoro per avere una faccia degna di essere mostrata?

E dentro?

Trapelerà qualcosa di quello che ho dentro dopo il lavoro di lifting?

Il vapore dell’acqua, diventata nel frattempo bollente, appanna il vetro e mi distoglie dalla visione.

Sposto il mix ed ottengo la temperatura ideale. Tuffo le mani a conca e getto l’acqua sul viso. Via tutto!

Mi riguardo. Sono sempre io.

E adesso vado con la crema, il fondotinta, il fard (scuro per carità) eccetera eccetera.

Ma che cazzo lo faccio a fare il lifting se poi sulla mia bella faccia pulita ci ributto altro coprente?

E dentro?

Cosa succede dentro alla mia coscienza se le faccio il lifting dell’autocritica per poi gettarle sopra la conformità delle apparenze?

La libertà ce la siamo tolta dentro di noi.

Puliti, dentro e fuori, solo per essere conformi.

Non è bellezza questo.

Non è purezza questo.

Dobbiamo cambiare tutto.

LA DONNA E IL GUINZAGLIO

Girava su sé stessa, in cima a quella piccola salita che portava all’uscita della scuola elementare. Girava su sé stessa e non sapeva dove mettere i piedi e dove guardare con la testa. Ostentava una normalità che non usciva dalle sue viscere e che le snudava ancora di più il disorientamento che aveva dentro.

Ogni  suo gesto era uno scatto improvviso, anche se stimolato da un pensiero voluto e ragionato e non dalla sua naturalità; si vedeva che, per compierlo, raccoglieva forza e nervi in modo quasi violento. Non si fermava mai, era in movimento continuo e stava dalla parte opposta di dove stavano le altre donne.

I suoi spostamenti si notavano come la nota stonata in mezzo al rigo, come il contropelo, come il gesso che stride sulla lavagna, come il tremore che ha la testa dopo aver preso una botta violentissima. Per quanto fosse sempre dietro a muoversi, si trovava sempre alla rovescio, sempre controcorrente, e questo suo comportamento si notava come la carta rovesciata in mezzo al mazzo.

I suoi modi di fare la facevano assomigliare al cane che ha perso il padrone ma non lo sa, e ancora non ha la percezione sicura di quello che è successo. Si guarda attorno, muove la testa alla ricerca del volto e delle gambe che non ci sono più, come se potessero apparire da un momento all’altro a riportare la situazione come è sempre stata.

Non sa che non verrà più, nessuno gliel’ha spiegato o glielo può spiegare; sarà solo il tempo che passa a dargli la dimensione di quello che è successo. Intanto muove il corpo e la coda senza senso, non avendo più l’ordine del padrone a spiegargli cosa deve fare.

Allo stesso modo lei si muoveva con disordine, in maniera scoordinata, senza la tranquillità delle persone normali; neppure lei aveva la dimensione reale e acquisita di quello che era successo. Anche lei viveva l’illusoria ricerca del volto e delle mani che non torneranno mai più, e cercava, nei suoi movimenti continui, le certezze che lui le dava e che dovevano tornare.

Aveva perso il marito qualche giorno prima e ora non aveva più quel riferimento mentale e psicologico che lui rappresentava per lei.  E questo, per quanto cercasse di nasconderlo, le si vedeva chiaramente in ogni gesto che faceva.

Avevano avuto due figlie e la vita doveva andare avanti come prima, lei doveva trovare il modo per tirare avanti comunque; in rispetto a lui e per crescere bene le sue figlie.

Ma per quanto cercasse di razionalizzare la situazione, questa le era precipitata addosso violentemente, la disperazione che aveva dentro le saliva fino alla gola e la faceva strozzare. Perché non era possibile che fosse morta una parte di lei, perché era impossibile restare senza qualcosa dentro.

E un marito, quello che avevano costruito assieme, le figlie e la vita che avevano voluto erano tutte parti di lei. Non poteva restare senza un pezzo dentro; poteva immaginare di restare senza una gamba, senza un braccio, senza un occhio, ma mai avrebbe creduto di restare senza un pezzo di anima.

Perché l’anima è una cosa intera, inseparabile; non si rompe, non si spezza, non si può portarne via un pezzo, mai.

APPUNTI DAL DIARIO – 06/02/2013 – ILARYDELL

Vi siete mai scottati? La pelle intendo. Avete mai provato a cuocere la vostra pelle con un liquido bollente?

La pelle muore. In gradi diversi, a seconda di quanto va a fondo negli strati del derma il liquido bollente che le avete versato addosso.

Trascorse le prime ore di dolore e quando le cure iniziano a fare il loro effetto anestetizzandovi, la pelle morta inizia a venire via e lascia il posto alla pelle viva.E quella pelle viva, a contatto con l’aria, BRUCIA! Dà a voi, che siete il corpo e le sensazioni del corpo che sta sotto a quella nuova pelle, il dolore di un contatto come se fosse quello contro un’intensa fonte di calore.

È l’aria ciò con cui siete venuti a contatto, ma è diventata come il fuoco sulla vostra pelle. Allora ci sono emozioni che danno la stessa sensazione fisica. È come se la pelle ardesse. E, ve lo giuro, fa male. Ve lo posso garantire; perché fisicamente una scottatura da liquido bollente so cos’è.

PRESBITERISMO

Lo so, lo so, so che faccio solo ridere …… ma, credetemi, la mia intenzione è tutt’altra.

Vedete i miei occhi come lacrimano? Piango, piango di continuo; e ora, pensate ancora che voglia far ridere?

Da qualche tempo uno stupido attacco di vecchiaia sta dando i suoi noiosi frutti e mi lacrimano gli occhi; poco male, direte voi. Certo, poco male. Basta asciugarsi le lacrime che scendono sul viso e andare avanti.

In effetti, se fosse tutto qui, non sarebbe una grave incombenza. Ciò che disturba è la lacrima che si ferma nell’occhio: modifica la visione e ne distorce i contorni. Tuttavia è proprio grazie a questo effetto che mi riesce facile vedere cose che la vista normale non permetterebbe.

UN ESEMPIO?

Un esempio: al supermercato. Confondo i cartellini e l’arista di maiale diventa interessante non tanto per il suo look, quanto per l’essere IN SCONTO. Inverto le priorità. Dimentico la lista della spesa e faccio acquisti non per ciò che serve, ma per ciò che è IN SCONTO.

Non sempre va bene. Se l’offerta del supermercato si prolunga nel tempo, oppure io ci capito più di una volta a settimana, mi ritrovo con montagne di carta igienica. E anche fin qui poco male. Il guaio accade quando in sconto ci sono le prugne cotte o i fagiolini freschi. La nostra dieta subisce scossoni di monotonia cronica!

Non direi di essere afflitta da una patologia medica vera e propria. Ovvero.

Ovvero la mia lacrimazione è dovuta a un eccesso di muco nel mio corpo, eccesso che si manifesta sotto strane forme di secrezione.

Fumo un po’ troppo, e questa potrebbe essere una causa della presenza di catarro. E che tale catarro si trasforma in muco  più o meno sciolto. E che ogni tanto trabocchi come il liquido in eccesso versato in un vaso già pieno.

Perché è già pieno il vaso?

Ma per via del raffreddore, naturalmente! Chi di noi non si prende un raffreddore, di tanto in tanto?

Dunque, in questa situazione caotica e disdicevole, io ho trovato la soluzione. Non appena avverto di essere vicino al livello di guardia, corro ai ripari e acquisto un raffreddore presbite in sconto.

M’accontento della loro scarsa qualità, che ben s’adatta a tenere lontano quelli peggiori. L’unico difetto è che diventano costanti e si prolungano nel tempo assai più di quelli normali, ma come ho già detto offrono il vantaggio di occupare una narice ed evitare l’arrivo degli altri.

È una specie di occupazione pacifica che vieta ai facinorosi di impossessarsi delle mie vie aeree; sorrido ripensando agli ultimi raffreddori acquistati, uno mi ha tenuto la narice occupata per un mese!

Prerogativa classica del raffreddore presbite è di colpire una sola delle narici disponibili, lasciando l’altra libera ed evitando il contagio da influenza seria. Capisco che sia sgradevole avere una narice attappata, ma per evitare il peggio è il rimedio migliore.  Sapeste quanta gente farebbe il diavolo a quattro pur di avere comunque una narice libera! Non ci credete? Vi do un esempio pratico.

Ehi, un momento, badate bene! Io non sono di quelle persone che comprano raffreddori presbiti per mascherare altri problemi. Eh no!

Vi racconto io come fanno quelli che sono malati e pensano di risolvere tutto con l’acquisto di un raffreddore.

Sapete bene cos’è un’influenza: cinque giorni a casa dall’ufficio, quattro partite a tennis perse, tre cene addio …. Allora? Uno XXX e via tutti i sintomi.

Non posso biasimarle, queste persone, ma io corro ai ripari anticipando i guai,  precedendoli sulla via del loro manifestarsi e sminuendone gli effetti.

Adesso che abbiamo stabilito la distanza tra me e i curatori degli effetti, andiamo a individuare coloro che, come me,  vogliono sminuire gli effetti devastanti di un raffreddore preso in pieno, ma invece del raffreddore presbite si rivolgono a XXX prima ancora di ammalarsi. Ma io non sono come loro, invece di XXX vado ai saldi!

Chi non si può recare ai saldi, o rifugge l’idea dell’utilizzo indiscriminato di XXX, si costringe a salti mortali per essere colpito dal primo virus leggero vagante che possa causare il raffreddore presbite ed evitare i guai peggiori.

Poveri cristi, sono impegnati a tirare su di tutto! Li potete vedere sniffare la polvere dei tappeti delle scuole di danza cui costringono le figlie, porgere il proprio fazzoletto sotto l’improvviso starnuto di un  amico, spargere innumerevoli tirate di naso nei locali più frequentati e infetti. Li capite? Qualsiasi mezzo è valido per evitare di beccarsi un’influenza con tutte le narici occupate!

La vicenda più sconcertante per chi ha un raffreddore presbite sono gli starnuti improvvisi; avendo una narice libera lo stress che lo starnuto crea nella narice occupata potrebbe essere letale. Conoscevo un tipo che non si è alzato più dalla tazza del water dopo essere stato colpito da uno starnuto improvviso. Poveretto. È rimasto stecchito.

L’estremo rimedio, quando il danno è ormai accertato e l’influenza è presa, consiste nel mutarla. Come fare? Semplice. Basta rivolgersi a quegli usurai dei rivenditori d’usato: a caro prezzo sono in grado di darti un raffreddore parotidico che annulla l’influenza. Oltre all’alto costo, questo tipo di raffreddore è anche molto noioso, ma le narici sono libere!

L’inconveniente più grande che comporta il raffreddore parotidico sta nel dover soffiare le orecchie contemporaneamente, e si devono utilizzare entrambe le mani. Questa situazione ci permette di comprendere, tra le altre cose, anche il valido motivo per cui le narici sono vicine!

Torniamo per un attimo al problema di partenza, la lacrimazione degli occhi. Acuita da una causa di stress possono costringere alla visita oculistica. Risultato: gli occhiali!

Ora il fastidio si è ridotto molto, ma è cominciato un altro disturbo: l’affaticamento per adattare il cervello alla nuova condizione.

ADATTARE IL CERVELLO!

GRANDI PROGETTI E PICCOLI TRAFFICANTI

OMICIDIO IN RIVIERA

Il preludio al temporale ha sempre dei connotati e delle caratteristiche distinguibili, è il momento in cui tutto è fermo perché tutto sta per succedere. Ma lo si comprende dopo, quando ormai l’inferno è cominciato.

E solo nel momento della ricostruzione del ricordo ci si rende conto di com’era l’atmosfera degli istanti immediatamente precedenti quell’avvenimento.

L’urlo sale da dietro come un roboante preavviso di tuono, e diventa sempre più forte e prolungato. C’è un attimo di smarrimento e di stupore prima di correre a vedere quello che è successo, lo stesso stupore e lo stesso smarrimento che si dipingono sul volto di Francesco quando avverte i primi acuti dell’urlo di Paola, e prima che il suo corpo reagisca a quel richiamo.

La raggiunge trovandola ferma e impietrita sulla porta del bagno di servizio, quello che cinque minuti prima aveva detto che sarebbe andata a pulire. Davanti a loro, riverso sulla tazza chiusa del water, il cadavere seminudo di un uomo riempie l’aria del suo tangibile puzzo si essere morto.

Paola sta ancora urlando e, nonostante l’orrore che anche lui prova, Francesco riesce a farla smettere chiudendole la bocca con il palmo della mano. Poi le chiude anche gli occhi sbarrati, annullando lo sguardo posato su quella visione terrificante.

Perché la pelle, aperta dal taglio preciso e finissimo di un coltello molto affilato, lascia uscire la carne in un crescendo di gonfiore visibile e quasi palpabile. La pulsazione della vita esce dal corpo abbandonata dalla pelle che è stata, fino a quel momento un vestito troppo stretto che ha finito con lo scucirsi.

Certe cose, quando succedono, tolgono la sensazione del trascorrere del tempo. Paola è appoggiata allo sgabello di fronte al bancone del bar, sta bevendo del vino, ma non sa chi glielo ha versato, quale percorso ha fatto prima di trovarsi lì e, se chiude gli occhi, rivede quell’uomo sbiascicato sul pavimento del bagno.

La polizia finalmente è arrivata, attorno a lei la confusione sta diventando sempre più caotica e non sa dove sia Francesco. Vorrebbe parlare con qualcuno, vorrebbe cacciar fuori altri urli che possano liberarla dalla terribile paura che ha appena vissuto.

Ma non c’è nessuno che possa portarla fuori di lì a sfogarsi un po’ e, in aggiunta a quella improvvisa e inaspettata solitudine, avverte anche una strana paura. È il terrore di dire qualsiasi cosa e che qualunque parola le esca dalla bocca poi possa diventare un’arma a doppio taglio e possa ritorcersi contro di lei. Si sente il gelo nelle vene.

Per quanto tenti di scaldarsi indossando una maglia sopra l’altra e insistendo per farci stare sopra anche la giacca, per quanto muova le gambe costantemente, nella speranza che il moto continuo le faccia ripartire il sangue, per quanto si ripeta mentalmente che tutto  passerà così velocemente come è arrivato, nonostante tutto ciò, la sensazione raggelante che l’ha invasa fin dal primo istante non si stacca da lei. E tarda ancora ad venire la rassegnazione dell’accettare quel diverso stato del suo essere.

E schizzi, schizzi dappertutto, il rivestimento del bagno è irriconoscibile per quanto quei punti rossi ne confondono il disegno originale. Quando chiude gli occhi rivede la scena e se la prima volta l’orrore occupava l’immagine per intero, adesso i particolari della scena raccapricciante si delineano con maggiore precisione: la bocca aperta con la lingua gonfia che penzola fuori, ricoperta di sangue … le braccia abbandonate con i palmi delle mani rivolti verso l’alto … gli schizzi lunghi e quelli punteggiati … la puzza!

Gli occhi di Paola restano venati dalle venature dell’affaticamento fisico del pianto, della rabbia, della disperazione di non riuscire a cacciare fuori di sé il disgusto.

È da poco trascorsa l’ora dell’alba, il sole tiepido del primo mattino ancora fatica a perforare e schiarire la foschia formatasi durante la notte. Il locale ha smaltito gran parte del fumo e della confusione accumulata nella serata precedente e ora deve riempirsi di nuovo a causa dello strano affluire di poliziotti, investigatori, clienti e curiosi.

Chi ha finito di bere da poche ore non ha altro posto per ingurgitare ulteriore alcol, ma l’ispettore di polizia, che non ha fatto il pieno la sera prima, per santificare quella levataccia mattutina non resiste alla tentazione di farsi preparare un caffè corretto.

Non gli capita tutti i giorni di essere di fronte al cadavere di un accoltellato e per digerire quel colpo a stomaco freddo gli ci vuole qualcosa di forte.

Il gestore del locale gli prepara volentieri il caffè che ha chiesto, neppure lui si è ancora ripreso dallo stupore di quello che è accaduto e questo moltiplica le normali chiacchiere. Il suo parlare si sta trasformando in un fiume in piena.

L’ispettore, invece, non parla, aspetta con ansia il suo caffè per potersi definitivamente svegliare, e approfitta della sua naturale flemma per lasciare che lo sfogo dei protagonisti sulla scena del delitto si completi. È il suo metodo per delineare con esattezza il quadro della situazione, invariabilmente destinato a guastarsi quando comincerà a fare le sue domande.

L’eccessiva eloquenza del gestore, a parte le dovute attenuanti determinate dallo choc, gli dà l’impressione che quell’uomo possa nascondere qualcosa. E se non è lui a nascondere qualcosa, certamente qualcosa di strano lo nasconde quel posto. Com’è possibile che una persona venga accoltellata in un bagno senza che nessuno si sia accorto di niente? In un locale piccolo come quello?

L’ispettore chiama Luigi, il suo vice:

  • Voglio la lista completa di tutte le persone che lavorano in questa bettola, di tutti i clienti che sono stati qui stanotte e dei frequentatori abituali, sotto qualsiasi veste, del locale.
  • Ah, dimenticavo, fammi il rapporto preciso e dettagliato del gestore: famiglia, soldi, precedenti, amici, lavoro, eccetera, eccetera.
  • Sarà fatto, capo.
  • Oggi all’una sulla mia scrivania.
  • Ma sono quasi le nove.
  • Allora comincia subito.
  • Va bene.

Luigi se ne frettolosamente, non ci sono discussioni da fare sugli ordini del capo, l’unica sua speranza per evitare un surplus di lavoro è quella di riuscire a trovare il maggior numero di informazioni subito e sperare che tra esse ci sia un minimo d’indizio per l’indagine.

L’ispettore osserva la scena dal tavolino a cui siede, poco lontano dal bancone del bar: il gestore continua a ubriacare chiunque gli capiti a tiro, mentre la moglie sta in disparte, come inebetita.

I primi dati sull’ispezione al cadavere glieli ha posati sul tavolino uno degli agenti arrivati per primi. La vittima, un uomo, di colore dell’apparente età di una trentina d’anni, è stato accoltellato con tre colpi al corpo, uno dei quali, dietro alle spalle all’altezza del cuore, dovrebbe essere stato quello fatale. Altre più dettagliate informazioni, come eventuali segni di colluttazione o indizi lasciati dall’assassino sul corpo, saranno evidenziate dall’autopsia.

La signora che ha scoperto il cadavere non è stata di alcun aiuto, e il gestore, suo marito, nonostante l’eloquenza, ancor meno. Per cominciare a farsi un’idea del posto e dell’atmosfera nel contesto di quello che è successo dovrà attendere di parlare con il barman, che ancora dorme il sonno del giusto riposo.

L’identità del cadavere è ancora sconosciuta e si dovrà attendere l’esame autoptico per sapere con precisione come è stato ucciso.

Buio assoluto!

Eppure quel cadavere  ha qualcosa di noto, di riconoscibile; l’ispettore non sa con esattezza se quel qualcosa ha a che fare con l’aspetto fisico o cos’altro. Forse una segnalazione?

Prima che le domande comincino a sovrastare i dati di fatto, il poliziotto decide di tornare in ufficio.

L’ordine sulla sua scrivania non è mai stato di grado sufficiente a garantire la praticità indispensabile a chi svolge un lavoro come il suo. all’apparenza sembra che qualcuno abbia abbandonato sul tavolo un groviglio di fili grossi e fini, gettati alla rinfusa, che attendono le mani solerti per poter alzare il cavo d’inizio.

Si siede sulla sedia dietro alla scrivania, poi, passandosi le mani sul viso, arriva lisciarsi i pochi capelli rimasti sulla nuca. Incrocia le mani dietro al collo e si appoggia allo schienale della poltroncina stendendo i piedi sulla scrivania dando ulteriore prova di disprezzo per quelle scartoffie disordinate.

Improvvisamente entra Luigi di corsa con in mano l’elenco delle informazioni che gli era stato richiesto; per la foga finisce quasi sdraiato sulla scrivania.

  • Quante volte ti ho detto di bussare prima di entrare? – lo attacca l’ispettore scocciato per quell’interruzione del suo relax.
  • Scusi, capo, – risponde Luigi senza dare troppo peso al rimprovero – ho la notizia più importante del caso! – si dice sempre così per far apprezzare il proprio lavoro!
  • Sputa fuori!
  • Abbiamo identificato il cadavere, si tratta di un clandestino entrato probabilmente circa due mesi fa in Italia, non si conosce ancora l’organizzazione che l’ha fatto arrivare e come.
  • Va avanti.
  • Non c’è da andare avanti, le informazioni finiscono qui, ma ho già diramato i dati e presto ne sapremo di più. Le altre cose sono tutte scritte qui dentro, ma c’è poco di interessante. – E così dicendo butta la cartellina con il rapporto in mezzo a tutte le altre scartoffie.

Il mare mosso verde marrone di sabbia del fondale si alza e rinsacca portando sé resti e rimanenze di oscure paure che turbano la mente scontrandosi con una fisicità già provata dal duro lavoro.

Uno specchio di luce s’infrange sul pavimento stagliandosi nei quadri che dividono il vetro della finestra; mille piccole ombre ticchettano quella luce passando velocemente tra il sole e il suo riflesso.

I piccioni passano e lei alza lo sguardo per capire cosa ha causato quell’intermittenza. Paola è disorientata, sono trascorsi due giorni dall’incidente e non sa cosa ha fatto in quelle quarantottore. I minuti pare abbiamo messo le ali ai piedi eppure lei sa che è anche il suo stato confusionale ad aumentare quella sensazione di corsa senza senso.

Il lavoro è tanto, è vero, ma se da un lato non permette un attimo di tregua dall’altro l’aiuta a uscire dall’orrore di quello che ha visto.

Completamente assorta nei suoi pensieri viene distratta dall’arrivo di Adriana che entra come un fulmine nel locale. Si avvicina a lei dietro al bancone del bar e sussurra:

  • Se qualcuno ti chiede qualcosa di mercoledì sera, io sono stata con te fino alle cinque del mattino, OK?”

Paola non fa in tempo a riflettere, né a capire cosa voglia ottenere l’amica con quella richiesta. Riesce solo a balbettare un “va bene” dettato dall’obbligo dell’amicizia, poi la vede correre via con fare frettoloso.

La mente vorrebbe tornare ai suoi pensieri, ma nell’immagazzinare il breve scambio di frasi immediatamente salta fuori il collegamento del giorno di mercoledì con quello dell’omicidio.

Si rende conto istantaneamente dell’enormità che ha compiuto dando la sua copertura all’amica. E per giunta proprio nell’orario che coincide con quello dell’accoltellamento! Cos’ha combinato dando l’OK all’amica?

Un baratro di terrore si apre dentro al suo stomaco e le fa distintamente avvertire un mancamento fisico. L’aria di stonato che aveva captato fin dall’inizio della loro avventura con l’osteria si accresce e ora che si è cacciata in quel guaio con la copertura ad Adriana, sta diventando una sinfonia vera e propria. Il brutto è che si tratta di una sinfonia superbamente tetra.

Un bicchiere fa due rimbalzi a terra provocando un rumore secco e ottuso, poi si rompe in mille frantumi andando a colpire lo spigolo del frigobar e causando un rumore bagnato e acuto. Le mani di Paola sobbalzano dentro l’acqua del piccolo secchiaio, quel richiamo fragoroso è come un proiettile che esplode contro i suoi nervi tesi.

L’acqua calda della doccia le picchia sul capo scivolando gradevolmente dal collo sulle spalle; allunga la mano per prendere la bottiglietta dello shampoo e nel farlo urta contro quella vuota che gli sta vicino. Maledice la sua pigrizia nel non ripulire l’angoliera della doccia di quei resti finiti e ormai inutili, intanto il piccolo contenitore di plastica vuoto è caduto sul piatto doccia e l’acqua gli si riversa sopra producendo un rumore ticchettante.

Lo raccoglie sistemandolo fuori dalla doccia in modo da ricordarsi, poi, di gettarlo via. Chiude il rubinetto poi, dopo aver fatto scendere un getto d’acqua più caldo degli altri, s’infila l’accappatoio e si avvia verso la camera per vestirsi. I pensieri, ormai, ripercorrono sempre le stesse tappe, e mentre riorganizza quello che dovrà fare al lavoro, la mente rimette in moto il meccanismo dei ricordi. Di qualche sera prima.

Quando arriva con degli ospiti che ritiene importanti Gusto ha un modo di fare meno smargiasso e più contenuto del solito. Paola non riesce a comprendere perché tenga in grande considerazione certa gente, ma lei ha sempre capito poco delle ragioni dei soldi e delle strade che li fanno correre.

Quella sera Gusto è con Giorgio, Rolando, Mario e alcune ragazze che fanno da tappezzeria. Si capisce subito che le teste d’oro sono i primi due mentre gli altri sono solo di contorno.

Si siedono con lei e Francesco, le chiacchiere sembrano marginali a qualsiasi argomento, ma la falsità e la furbizia con cui Giorgio parla le danno fastidio come il non riuscire a stabilire il limite dove finisce la verità e dove cominciano le sue aperture fantasiose per fare il grand’uomo.

  • Allora, Gusto, cosa ne pensi del Grande Progetto? – chiede Giorgio apparentemente in modo distratto, ma si vede lontano un miglio che vuole sapere la posizione dell’amico.
  • Io non credo che verrà mai realizzato; sai quanto verrebbe a costare un’isola in mezzo al mare? E poi con tutto quello che credono di metterci sopra? –
  • Perché, a te non piacerebbe avere un casinò a portata di motoscafo?-
  • Mi piacerebbe eccome! Ma non credo che riusciranno mai a trovare i fondi necessari.
  • Può darsi che aprano delle partecipazioni …
  • Ah, io qualcosa ce lo investirei …

Mentre parla una delle ragazze inizia a distrarlo e l’argomento si chiude. Ma Giorgio ha capito quanto basta per sapere di poter attirare nell’affare anche Gusto e i suoi soldi. Con l’indice e il pollice cinge il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, senza stringerlo con presa sicura, quasi gli sia difficile decidere se portarlo alla bocca oppure no.

Si stava facendo molto tardi e visto che nella compagnia c’era anche Gusto, Francesco gli ha chiesto il favore di chiudere lasciandogli le chiavi sul tavolino.

LE CHIAVI!

Paola si risveglia dal torpore dei ricordi e cerca di ricostruire passo a passo quei momenti; quella sera lei e Francesco erano andati a dormire un po’ prima approfittando della presenza di Gusto e della mancanza di altri clienti. Lui aveva accettato di chiudere il locale e loro gli avevano lasciato una delle loro chiavi di scorta. Avevano cambiato le serrature per evitare le intrusioni di coloro che avevano gestito negli anni precedenti per conto di Gusto. Quindi lui non poteva usare quelle vecchie e quella sera se l’era fatta lasciare da  loro. Non l’aveva  mai restituita. Il fatto era accaduto quasi quindici giorni prima, dieci giorni esatti prima dell’omicidio.

DEM è furioso, ha programmato nei minimi particolari ogni mossa, sua e di chi gli sta attorno, cosa gli è sfuggito dal controllo per fargli perdere la situazione di mano? Chi è stato a commettere quello stupido omicidio proprio nel paese che dovrà essere la base strategica di tutta l’operazione?

DEM non sa con chi prendersela, per la prima volta nella sua vita ha a che fare con un fantasma di cui non conosce assolutamente nulla. L’uomo ucciso è un emerito signor nessuno, un marocchino qualunque, un clandestino senza documenti, né lavoro, né dipendenze.

A chi ha fatto comodo farlo fuori? Chi cazzo si è messo in mezzo a rovinargli i piani? DEM vorrebbe fregarsene altamente, vorrebbe togliersi il pensiero dalla testa, magari scoprendo la verità; ma non sa dove raccogliere le informazioni utili per la soluzione a quell’impiccio d’omicidio.

Come può sperare di realizzare il suo Grande Progetto di Mega Las Vegas Galleggiante se non ha tutta la situazione sotto controllo? Adriana si è assicurata la complicità di Paola, ma DEM crede che né lei né quel sempliciotto di Francesco, suo marito, abbiano nulla a che vedere con quella storia o con quello che eventualmente potrebbe esserci dietro. L’unico vantaggio di averli dalla sua parte è che sono un contatto in più con Giorgio.

Quando Giorgio era venuto a trovarlo per parlare dell’affare, dopo che DEM lo aveva comunque fatto seguire da Bruno per conoscerne ogni suo spostamento, aveva dimostrato una calma di cui aveva poca padronanza.

E quel nervosismo non era causato dai problemi che stava provocando l’esponente dell’opposizione, tale Rolando, quanto piuttosto dalle deviazioni che avrebbero subito alcuni suoi traffici personali.

Giorgio è un ingenuo, DEM è giunto a questa conclusione dopo che Bruno gli ha riferito di averlo visto confabulare con l’esponente dell’opposizione. Se pensa di concludere gli affari con quella mezza cartuccia pensando di scavalcarlo, significa che non ha capito niente.

Rolando non avrà alcuna parte nella Mega Las Vegas Galleggiante, e se pensano di far ridimensionare il progetto per avere più possibilità di fargli le scarpe, non si rendono conto di quanto sia pericoloso mettersi contro di lui. E poi, quali vantaggi può trarre Giorgio dal combinare affari con quell’uomo? Ha forse qualche giro di conoscenze che DEM non conosce?

Il volto fermo immobile, nessun muscolo si muove a tradire il suo essere vivo, lo sguardo fisso nel vuoto, solo qualche ricciolo di capello trema al lieve soffio della brezza estiva. Gli occhi incantati da un cervello che segue pensieri lontani dal posto e dai luoghi in cui il corpo si trova. L’attimo di impassibilità trascorre subito, come se un inesistente stimolo abbia il sopravvento sull’immobilità pensosa.

Giorgio cammina con fare disinvolto, come se nulla possa distrarlo dalla passeggiata sul lungomare; in realtà getta di continuo lo sguardo dietro alle spalle per controllare che nessuno lo segua. Fuori dal locale di Paola quel marocchino lo aveva guardato fisso negli occhi più di una volta e sicuramente ce l’aveva con lui. Non lo conosceva, ma come lui ce ne saranno stati tremila che erano passati per le sue mani e che lui non sarebbe stato in grado di riconoscere.

Di certo era stato lui, quel marocchino che l’aveva guardato fisso, a dargli quello strano appuntamento, poco prima dell’alba, alla locanda di Francesco; ma lui aveva fatto bene a non andarci e per fortuna qualcuno ci aveva pensato a farlo fuori in sua vece.

Sì, qualcuno, ma chi? E se all’appuntamento ci sarebbe dovuto essere anche qualche altro clandestino fuggito ed erano d’accordo per fare fuori lui?

Magari poi le cose tra i due si erano deteriorate, avevano discusso, e uno c’era rimasto secco. Ma adesso, l’altro, quello che aveva compiuto l’omicidio, quello adesso ancora lo sta cercando?

A furia di voltarsi per controllare le spalle Giorgio sta rischiando un attacco di periartrite.

Giorgio è sempre entrato nel locale senza salutare e l’averlo fatto anche in quella occasione non significa che sia una giornata diversa dalle altre. A Paola non è mai piaciuto quell’uomo alto e dinoccolato, costantemente sul punto di far scattare il suo nervosismo.

Poco gliene importa se Francesco, invece ritiene che quella sia una persona cui usare riguardo per i tanti soldi che riesce a maneggiare. Per di più non si capisce da dove gli arrivino e come li maneggi, quei soldi, e ciò contribuisce ad aumentare la diffidenza di Paola.

  • Vuoi un caffè? –
  • Sì, grazie. –
  • È qualche giorno che non ti si vede, sei stato fuori? –
  • Ho dovuto sbrigare degli affari a Roma.-

La risposta secca e asciutta lascia intendere che ci sia poca voglia di parlare; meglio così, pensa Paola, che vorrebbe, sì, chiacchierare dell’omicidio, ma Giorgio non è propriamente la persona adatta. Dopo avergli servito il caffè lo lascia solo al bancone del bar, immerso nella lettura di un quotidiano.

Esce a prendere un po’ d’aria, la presenza di Giorgio e la mancanza di Francesco la fanno sentire in debito di ossigeno. Si siede a uno dei tavolini esterni con un quotidiano aperto davanti a lei. Ma non riesce a distrarsi, il pensiero dell’uomo seduto al bancone le occupa la testa più di quanto non vorrebbe.

Quell’uomo non le ha mai fatto niente di male, ma non le ha neppure mai ispirato un benché minimo sentimento di fiducia. Per di più il fatto che sia un grande amico di Adriana e che le ha fatto quella strana richiesta di copertura per il giorno dell’omicidio, le crea una certa sensazione di disagio.

Il Galeazzo, con le sue piccole mosse di sventagliate passeggere, accompagna la crescita del paese come un abitante tollerato e sempre chiacchierato. Raccoglie ogni cosa, notizie, pettegolezzi, chiacchiere e quant’altro contribuisca alla vita del paese. Il Galeazzo, vento di sud-est altrimenti detto libeccio, raccoglie tutto e lo porta in giro, come fa con i semi delle piante, con le voci del porto, con i richiami delle donne, con le voci dei fruttivendoli.

E se in tanti anni è stato tacciato di essere il provocatore delle disgrazie e la causa delle male avversità, nessuno può negare di avere sfruttato la sua fama per alimentare quell’indifferenza che sarà la migliore copertura dei sotterfugi dietro cui trincerare i propri interessi personali.

Il Galeazzo pare aver ingaggiato una schiera di forni ad altissimo potenziale per utilizzare l’aria bruciante e soffiarla con violenza in faccia ai poveri turisti. Il caldo è insopportabile, la torrida temperatura di quel vento afoso toglie l’ossigeno anche a coloro che abitano vicino al verde promontorio.

Le voci che il torrido Galeazzo porta con sé parlano di un certo Mosef sfuggito a una rete di traffico di clandestini, e che per la sua fuga ha pagato il prezzo più alto. Quanto a sapere di quale rete organizzativa si tratti e a chi del paese ne sia invischiato non è affare che riguarda le chiacchiere.

Come al solito, quando la gente di Gàlino deve fare i conti con una realtà più grande del solito campo visivo preferisce voltare la testa da un’altra parte.

Il giorno di Ferragosto la sirena del porto suona nell’ora del mezzogiorno e quell’avvertimento di nebbia ha un sapore particolare. Sembra preannunciare la trasformazione di quel posto in un luogo senza speranza, né di gioie né di dolori, solo un blues costante appiccicato alla pelle.

Il Galeazzo soffia piano, quasi a non voler far sentire la sua presenza a chi passeggia sul lungomare. Le chiacchiere si rincorrono come le voci che si sentono nelle conchiglie, e parlano di grandi affari andati in porto, di piccoli malavitosi lontani da Gàlino, di gente che esprime la sua creatività e di quelli che ne approfittano.

Gàlino d’inverno è come un film in bianco e nero proiettato al rallentatore; per tutti i colori che hanno girato durante la mirabolante estate, ciò che resta nella stagione umida e piovosa non è altro che uno scenario spento e vuoto.

Le luci gialle del porto diventano più malinconiche quando la nebbia dell’autunno le scolorisce appiattendole su un’immagine sempre più evanescente; un uomo solo cammina sul marciapiede con il cappello calato sugli occhi.

Procede spedito con le gambe che appena si vedono mentre appaiono e scompaiono sotto l’orlo del lungo cappotto. Cammina stringendo le mani, infilate fino quasi all’avambraccio dentro alle enormi tasche di quel cappotto grigio nero che si confonde con il colore dell’asfalto e del marciapiede.

Sta percorrendo la sopraelevata del lungomare, ogni tanto alza lo sguardo verso l’orizzonte estremo e cerca d’immaginarsi l’isola che dovrà sorgere al largo. In confronto alla Mega Las Vegas Galleggiante avrà le dimensioni di uno scoglio, e se per il primo progetto si parlava di effetto nave, questo che verrà realizzato al massimo potrà regalare un effetto pedalò!

Poco importa se l’opera non avrà  dimensioni enormi,  la garanzia di poter comunque smaltire la sua “mano d’opera” è stata sufficiente a fargli optare per quel ridimensionamento. Troppo difficile sostenere il mega progetto portato avanti dalla maggioranza politica e favorito da un costruttore esterno a Gàlino.

Il Galeazzo soffia piano, lui lo ha sempre gradito come un venticello che riesce a portare un’allegria dispettosa di cui si sente complice. Adesso che ha per le mani il progetto dell’isola artificiale le porte dei suoi affari personali si spalancano e il sogno di dare a Gàlino un’impronta “diversa” e di esserne l’unico artefice si sta realizzando.

Non è stato difficile arrivarci. Nonostante i tanti difetti, Gàlino è un paese che si fida ciecamente solo dei suoi figli, anche se a volte sono peggiori di quelli che abitano fuori. La fiducia era stata un’arma  facile da usare per eliminare la concorrenza di DEM, anche se era sostenuto dagli attuali amministratori. È stato sufficiente mandare a vuoto la prima asta e creare un clima di diffidenza nei suoi confronti e, con l’aiuto di Giorgio, il resto è venuto da sé.

Nel mezzo della faccenda s’era rischiato di far saltare tutto per colpa di quello “sfuggito”, ma alla fine la situazione era girata a suo vantaggio. Ora aveva in pugno anche il suo più fido alleato, Giorgio, che doveva guardarsi le spalle di continuo per paura di essere scoperto.

Per lui ingaggiare Leo e far fuori quel clandestino per evitare spie era stato un gioco da ragazzi e l’aiuto piovuto dal cielo con le chiavi era stato il tocco giusto per attuare il piano e deviare ogni minimo sospetto attorno. Gusto non avrebbe mai tradito la sua fiducia e Adriana aveva conquistato il silenzio di Paola e Francesco.

Dopo che la polizia aveva trovato un capro espiatorio, la faccenda si era sgonfiata e ora che tutti erano sistemati e comunque bisognosi di pace e tranquillità, non bisognava far altro che attendere il momento del trionfo.

LA  CASALINGA  E  IL ROGO  DI  WINDSOR

“All’alba di questa mattina pompieri e vigili del fuoco inglesi sono riusciti a domare l’incendio che ha devastato la St. George Hall del Castello di Windsor. La Regina Elisabetta, visibilmente abbattuta per quanto accaduto, si è recata sul posto al fine di sincerarsi …..”

Il cronista continuava la lettura della notizia, il tono del televisore si abbassò, i particolari della vicenda non interessavano, e poi c’era la tavola da sparecchiare, i piatti da infilare nella lavastoviglie, il pavimento da spazzare,  eccetera, eccetera.

Eliminata la distrazione provocata dalla voce televisiva, i ricordi iniziarono ad affollare la mente.

  • Ticket please. –

L’uomo in divisa di servizio sporge la mano in avanti per farsi mostrare i biglietti d’ingresso. La fila è lunga,  bisogna avere pazienza, solo al di là dello stretto passaggio si riunirà con il resto del gruppo e con la sua guida.

  • Windsor Castle fu costruito per la prima volta in legno attorno all’anno mille da Guglielmo il Conquistatore. La sua posizione leggermente elevata e la relativa vicinanza con Londra ne facevano un luogo ideale per le postazioni d’avvistamento. Ad Enrico II ed Edoardo III si deve l’intero corpo della costruzione nel 1300-1400 che poi Giorgio IV ristrutturò  nel ….” .

La guida parla  come un libro stampato, la ressa attorno a lui si stringe nel tentativo di rendere la sua voce accessibile a tutti i componenti, ma con un gruppo di trenta persone è difficile avere anche solo l’attenzione, figuriamoci quale impresa sia far arrivare la propria voce a tutti.

Tiziana segue  con quanta maggior attenzione possibile, date le condizioni e al termine del giro compra una guida stampata da consultare al rientro in Hotel. Se non riuscirà a leggerlo lo potrà comunque tenere come ricordo.

Certo lei avrebbe preferito spendere qualche altro minuto chiacchierando e informandosi sui particolari con  la guida architettonica, piuttosto che essere costretta ad andare a vedere la noiosa casa delle bambole! Ma si sa, un viaggio organizzato ha una struttura tale per cui i tempi sono strettissimi tra una visita e l’altra e non c’è una grande libertà di gestione del tempo. Bisogna adeguarsi ai ritmi dell’organizzazione altrimenti si rischia di saltare gli appuntamenti per cui si è pagato.  

Neppure la sera si ha qualche minuto per sé, ci sono sempre degli impegni con l’animazione organizzata per il gruppo e bisogna partecipare per forza.

Certo sarebbe un’ingrata a lamentarsi di quello che sta vivendo, dopotutto quell’avventura è un vero regalo che ha vinto con l’estrazione dei biglietti abbinati all’abbonamento della palestra che frequenta nei bui mesi invernali. Non può pretendere di più da un viaggio di tre giorni completamente gratuito.

E poi solo il fatto di prendersi alcuni giorni di distacco dai fornelli, lavandini e pavimenti è un vero toccasana. Dunque è meglio godersi il tour anche con lo stress delle visite veloci. Per di più andranno a vedere tanti posti belli, incluso lo splendido mercatino di Portobello. È sicura che proprio lì riuscirà a sfogare la principale mania del suo essere casalinga: gli acquisti!

I ricordi, alla sua età, erano dei compagni piacevoli con i quali rispolverare  gioie e malinconie. In quel periodo, direttamente seguente la morte di suo padre avvenuta alcune settimane prima, toccare con mano quanto restava di certi frammenti di vita la distraeva e la aiutava ad alleviare il dolore.

Le venne in mente che  anche suo padre si recava frequentemente in Inghilterra, era uno dei paesi che amava di più e appena trovava una scusa decente per andare a Londra, insisteva per portare anche la mamma.

Negli ultimi tempi, prima che la malattia gli minasse il fisico per poi divorarselo in pochi mesi, aveva intensificato quei rapporti di viaggio, che avevano uno  stile quasi ottocentesco per quanto ne conservasse ricordi e diari di appunti. Amava i parchi di Londra, i pub dove bersi l’amata birra, i palazzi di Kensington, e ogni volta  portava guide, libri e dépliant dei luoghi che andava a visitare.

Tiziana dopo il breve tour aveva riportato solo quel libro di Windsor, aveva avuto poco tempo per prendere altre guide. Dopo aver ascoltato la notizia sul rogo a Windsor aveva ripreso in mano quel ricordo e ora lo stava riponendo in buon ordine assieme a pochi  altri souvenir, incluse le sue meravigliose chincaglierie di Portobello.

“ All’alba di stamani pompieri e vigili del fuoco sono stati impegnati nell’arduo lavoro di spegnere le fiamme che si sono sviluppate durante le ultime ore della notte nella concessionaria d’auto … “

Il cronista del telegiornale regionale continuava a leggere la notizia, il tono del televisore si abbassò, i particolari non interessavano, e poi la tavola della cena era da sparecchiare, i piatti da infilare in lavastoviglie, il pavimento da spazzare, eccetera, eccetera. E poi quella notizia la conosceva già nei minimi dettagli, le chiacchiere, si sa, sono più veloci della penna. 

Il concessionario di zona che aveva subito l’incendio non aveva perso gran che perché le auto bruciate erano al di fuori del capannone, e non avevano un gran valore essendo tutte in attesa di essere svendute ai commercianti. Inclusa l’auto di suo padre, anch’essa arsa nel fuoco. Quello forse era il dato più sconcertante dell’intera vicenda; era come se quel fuoco avesse voluto dare il suggello definitivo alla scomparsa di suo padre.

Forse per distrarsi, forse mossa dall’invisibile mano del destino che ci mette sempre sulla strada di ciò che ha già deciso, quella sera pensò di mettere a posto i libri che quel disordinato di suo marito ammucchiava in scatoloni per non prendersi la briga di sistemarli.

Fra i vari volumi trovò anche un vecchio volume sulla storia di Windsor, probabile eredità di suo padre, e con dispiacere notò il distaccamento della copertina. Prima che finisse in rovina del tutto o peggio, gettato nel fuoco della stufa, doveva preoccuparsi di portarlo ad aggiustare in legatoria.

L’armeggiare con i libri le fece venire in mente di nuovo suo padre e tutte le guide e i testi che si era portato nei continui andirivieni dall’Inghilterra. Due viaggi all’anno per cinque anni di fila avevano causato un accumulo sicuramente maggiore del suo.

Il giorno seguente, dopo aver portato la guida in legatoria come si era prefissata, andò a rovistare tra le cose di suo padre cercando quei volumi di ricordi, ma non ne trovò traccia. Montagne di testi, libri di avventure, dispense, ma delle guide e dei libri inglesi nessuna presenza. Misteri della confusione!

Arrivò a casa in ritardo sull’orario che si era prefissata. Nonostante non avesse trovato i libri inglesi era rimasta a lungo nella vecchia soffitta dove sua madre aveva riposto le cose di suo padre.

Gettò la giacca sulla prima sedia che incontrò e mentre si avviava ai fornelli per mettere su la mitica pignatta dell’acqua per la pasta del mezzogiorno, notò la finestra del cucinotto aperta. Non ricordava di averla lasciata così, ma la richiuse automaticamente pensando a una dimenticanza del marito che era uscito dopo di lei. 

Quando vennero ad arrestarla la sua faccia, visibilmente trasparente di innocenza, non aveva indotto i carabinieri a cambiare idea.

Ora, in quella umida cella, i ricordi a farle compagnia, non trovava alcuna spiegazione a quello che le era successo e nemmeno un modo intelligente per uscire di lì. L’avvocato diceva di stare tranquilla, che tutto si sarebbe risolto presto, al massimo le avrebbero dato un anno con la condizionale ed entro pochi giorni sarebbe  uscita.

Ma quale anno e quale condizionale, gli aveva urlato in faccia, lei non aveva fatto niente di male e se dicevano che c’era droga nella guida di Windsor lei non ne sapeva assolutamente nulla. Non era disposta ad addossarsi una colpa non sua solo per uscire subito di lì.

Di nuovo la memoria tornò a suo padre? Possibile che tenesse in piedi un giro di narcotraffico come sosteneva quel pancione che la interrogava quasi tutti giorni? No, quella faccenda aveva qualcosa di storto, qualcosa che non combaciava con il resto della vita reale.

Il rogo di Windsor?! Che cazzo c’entrava lei!

Il rogo del concessionario?! Che stracazzo c’entrava lei!

Conduceva una tranquilla vita da casalinga, come potevano credere che avesse a che fare con il commercio della droga!

Gli interrogatori la sfinivano, l’impossibilità di potersi sfogare con qualcuno, il tono assurdo della vicenda e l’isolamento del carcere la faceva sentire ancora più indifesa. E come faceva lei a spiegare che non c’entrava nulla con i traffici di droga? E come si poteva spiegare quella droga disciolta nelle copertine dei libri? Quali prove poteva portare ora che suo padre non c’era più?

Pretendevano che rivelasse i nomi dei complici, erano convinti che facesse parte di un giro di narcotraffico, lei che aveva innocentemente portato un volume a rilegare perché le copertine si stavano disfacendo!

In un’altra stanza dello stesso stabile, ma completamente diversa dalla sua cella, due persone parlavano animatamente.

  • A me sembra solo uno scherzo crudele.
  • E lo chiama scherzo l’incendio di un castello?
  • Io non vedo che attinenza abbia.
  • Senta, lasciamo stare le nostre opinioni e preoccupiamoci di mandare il porto la faccenda senza ulteriori danni. Assicuri ogni riguardo alla signora, per quanto possibile nella sua situazione.-

Il capo della polizia uscì dal Penitenziario e tornò alla sua sede; i ragazzi stavano sorvegliando la casa della donna giorno e notte. Prima o poi l’ora X sarebbe dovuta scoccare.

  • Sei pronto Jack?
  • Pronto.
  • Allora entriamo adesso che non c’è nessuno.

I due complici non ebbero difficoltà a forzare la semplice serratura del portone e quanto entrarono misero a soqquadro il modesto appartamento trovando in poco tempo l’oggetto della loro ricerca.

Trionfanti si avviarono verso l’uscita, ma prima di riuscire a mettere i piedi fuori dalla soglia le pistole spianate dai carabinieri si puntarono sui loro visi.

  • Signora ci dispiace molto di averle fatto passare questi brutti momenti in cella, ma mi creda, siamo stati costretti a farlo, per salvaguardare la sua incolumità. I trafficanti d’arte con cui avevamo a che fare era gente senza scrupoli.

Lei raccoglie le sue cose, quelle che aveva dovuto consegnare al momento del suo arresto; la testa ancora confusa non riesce a capire nulla di ciò che le sta dicendo l’uomo.

  • E la droga?
  • Stia tranquilla, non abbiamo trovato nessuna droga nelle sue guide; era solo una scusa per trattenerla sotto il nostro controllo. Lei che passa tante ore in casa correva il serio rischio di trovarsi quegli uomini davanti, e le assicuro che non sarebbe stato piacevole.
  • Ma, mio padre? –
  • Suo padre non ha mai fatto nulla, dovevamo rendere la storia credibile … –
  • E l’oggetto che hanno preso?
  • Questo è il punto, signora mia. Durante il suo viaggio in Inghilterra ha avuto la sfortuna di comprare un oggetto rarissimo che per puro caso si trovava tra le bancarelle di Portobello. E questo ha messo i trafficanti nella sua vita.

LA  STATUETTA!!!!!!!!!!!!!!!!

DI UNO STRANO FURTO

Le mani stringono le sbarre fino a sbiancarsi. Le nocche delle dita sembrano essere l’unica parte evidente della mano.

Quelle sbarre lo rinchiudono.

Gli occhi spalancati si affacciano dalla faccia storta e il resto del viso si deturpa in un urlo disumano e sordo. Uno di quegli urli senza voce. Poi la bocca sguaiatamente aperta si avvicina alle mani serrate sulle barre. E si richiude in fretta.

Si allenta la morsa e l’uomo si ritrae, lascia la presa. Il viso torna ad avere un aspetto normale, lentamente volta le spalle al guardare quella grata, il corridoio si apre bianco e lungo, le sue ciabatte riprendo a strascicarsi mentre il suo misurato incedere diventa leggermente sbieco. E le labbra si muovono a biascicare parole di frasi incomprensibili.

“… di solito non perdo niente io camminavo nel bosco la calma la quiete io lei nessuno e lei l’hanno strappata e io di solito non perdo niente invece quando io camminavo nel bosco la calma la quiete io lei nessuno e lei l’hanno strappata … di solito non perdo niente …”

Il mare non è mai stato come oggi, magari questa cosa la penso ogni volta che mi trovo a fare una nuotata candida, sola in mezzo al mare limpido e piatto. Oggi me sembra che … er … se sia fermato qui … mi viene in mente la canzone di Venditti. Non so perché. C’è qualcosa che manca in questa calma, in questa lentezza. I gabbiani fermi sugli scoglie, le onde tonde del mare leggermente increspato che ti vengono incontro. Tutto sembra rallentato.

Il mistero è anche il godimento di contemplare. Dove l’ho letta questa?

Devo chiamare la mia amica Vanessa.

Ma sì. È tanto che non la vedo né che la sento.

Torno a casa. La salita comincia a diventare impegnativa, i piedi fanno forza sui pedali. Devo passare a casa prima di andare al Forno delle Meraviglie a comprare qualcosa per la cena di stasera.

Cerco le chiavi nella borsa del mare, è sempre un acido trovarle nel marasma di una sacca che ha gestito tutta la giornata al mare. Le ragazze sono rientrate prima di me, il figlio piccolo è in vacanza in montagna e noi siamo rimasti con la figlia maggiore e tutte le cugine a farle compagnia. Prendo il portafogli che occhieggia dallo zainetto appoggiato sulla sedia vicino all’ingresso di casa.

  • Faccio un salto al forno e torno subito!

Urlo verso le stanze da letto.

  • Mmmhh.

Un verso indefinito arriva da dietro le porte chiuse, io esco senza attendere ulteriori conferme al mio avviso. Prendo la bici, così farò prima. Esco dal cancello e incrocio Marco, un amico di mio fratello che fa lezioni di latino a mio nipote.

  • Ciao Marco, come va?
  • Bene, grazie e te?
  • Anche a me va bene, hai finito la lezione?
  • Sì, il ragazzo è andato a giocare al campetto di basket.
  • Bene, ciao.
  • Ciao.

Caro ragazzo.

Come al solito il passaggio al Forno delle Meraviglie comporta una spesa maggiore di quella necessaria, perché cedo alla tentazione di fare qualche acquisto in più rispetto a quelli che servono.

Al ritorno incrocio di nuovo Marco con il motorino e ci salutiamo alzando il braccio.

Caro ragazzo.

Devo chiamare Vanessa.

Appoggio la spesa sulla madia in cucina e mia figlia si fa incontro dalle sue stanze.

  • Marco si è tagliato la mano, adesso è andato al pronto soccorso a farsi mettere i punti.
  • Che cavolo stai dicendo, Marco l’ho visto adesso e non si è fatto proprio niente!
  • È vero zia – incalza la nipote che si è aggiunta a mia figlia – si è tagliato con il vetro in mansarda e adesso è andato a farsi medicare; noi gli abbiamo solo disinfettato la ferita.
  • Ma cosa state dicendo, io l’ho visto andare via con il motorino, come è possibile che si sia fatto male.
  • L’avrai visto prima dell’incidente.
  • Ma se l’ho incrociato adesso e mi ha anche salutato.
  • Mamma tu ti confondi; Marco è venuto a chiederci se c’eri in casa perché si era fatto male, di sopra non c’era nessuno e noi abbiamo potuto fare poco.
  • Vi dico che l’ho visto qua fuori quando sono uscita per andare al forno e stava per andarsene; se di sopra non c’era nessuno, come ha fatto a rientrare in casa?

Nel racconto delle ragazze manca qualcosa, oppure mi stanno raccontando una balla.

  • Zia, si è fatto davvero molto male; noi siamo andate a pulire di sopra perché Marco ha detto che se la nonna avesse visto tutto quel sangue avrebbe potuto anche spaventarsi.
  • Vi dico che ho visto Marco fuori di casa che stava preparandosi a partire con il motorino, poi l’ho salutato sulla strada mentre stava andando verso Bicami pochi minuti dopo; com’è possibile che sia successo tutto quello che voi dite?

La tempistica di quello che dovrebbe essere successo non mi torna, manca qualcosa.

  • Forse ti ricordi male, comunque lui adesso è al pronto soccorso a farsi mettere i punti.

Decido di chiarire i fatti.

  • Proviamo a chiamarlo al cellulare per sapere se ha bisogno di noi.

I cellulari sono muti. Tutti. Neppure quello di mia mamma e di mio fratello rispondono. La faccenda ha dell’incredibile, surreale per come si poggia su una cronologia che non ha appigli nello scorrere degli istanti. Ho scambiato due parole con lui dieci minuti fa, ed era tutto tranquillo. Possibile che in un attimo la situazione da tranquilla possa trasformarsi in tragica? E perché in casa non c’è più nessuno? E come ha fatto lui a rientrare?

Mi affaccio al portone per uscire di nuovo e vedo arrivare gli assenti ingiustificati, mia mamma e mio fratello. Sorvolo sul perché se ne siano andati prima di Marco e mi fermo a spiegargli l’accaduto.

  • Marco s’è fatto male.
  • Come Marco si è fatto male?

Mia madre mi guarda stralunata.

  • Come ha fatto non lo so, me lo stavano raccontando le ragazze; adesso dovrebbe essere andato al pronto soccorso a farsi medicare.

Non riesco a essere convincente, manca qualcosa in tutta quella storia, e non riesco a capire che cosa sia. La mia perplessità è interrotta dalla nipote che ci tiene a testimoniare in prima persona.

  • Nonna, Marco è venuto di sotto e si teneva la mano, ha chiesto se c’era la zia e ha detto che si era tagliato; siccome di sopra non c’era nessuno noi gli abbiamo dato l’acqua ossigenata per disinfettarsi, ma lui ha detto che gli faceva troppo male e che sarebbe andato al pronto soccorso a farsi medicare.

A quel punto mia madre rompe gli indugi e sale in auto per andare a vedere la situazione di persona. Io decido di non muovermi. Torno alle mie faccende e aspetto di conoscere gli sviluppi. Mi faranno sapere.

Devo chiamare Vanessa, da qualche parte devo avere il suo ultimo numero di cellulare, li cambia così spesso.

È il pensiero di un attimo, perché ancora una volta il trascorrere dei momenti ha una rapidità maggiore rispetto a come si susseguono gli avvenimenti; e la sensazione di aver perso qualcosa in queste sequenze sta diventando una certezza.

  Arriva Marco con la mano fasciata.

  • Allora è vero, ti sei fatto male sul serio!
  • Mi hanno messo due punti dentro e due sopra.
  • Ma come hai fatto?

La mia casa si sta popolando, anche il gruppo che si era precipitato al pronto soccorso è rientrato dopo aver saputo che Marco aveva finito la medicazione. Cerchiamo di capire quello che è successo, ma nella cronologia dei fatti manca sempre qualcosa; pare che dopo avermi salutato mentre uscivo di casa, Marco sia rientrato per salire in mansarda a prendere una cosa che aveva dimenticato. Salendo le scale che portano in mansarda ha urtato il vetro dell’abbaino che sta ai piedi del primo ballatoio e, inciampandoci sopra, è riuscito a romperlo procurandosi un taglio profondo.

  • Okay, ma quando ti ho visto qui fuori casa, non era ancora successo niente? Tu stavi andando via, eri già uscito!
  • Mi sono ricordato di aver lasciato una cosa di sopra, niente di importante, però sono tornato indietro a prenderla.
  • E nei cinque minuti che sono passati mentre io andavo al Forno delle Meraviglie, sei riuscito a combinare questo disastro e a prendere il motorino per andare in ospedale. È  incredibile!

Ci guardiamo tutti in faccia per trovare un filo di logica in quel racconto, ma i conti non tornano; e poi in casa non c’era nessuno perché mia madre e mio fratello erano usciti insieme a Marco, per cui come ha fatto a rientrare?

  •  Il portone non si chiude bene e se non lo inchiavi dall’esterno basta una leggera spinta per farlo riaprire.

Spiega mia madre.

  • Quindi voi siete usciti insieme di casa, poi Marco è tornato indietro a prendere una cosa in mansarda, quindi quando ti ho visto io ti eri già fatto male? – mi manca sempre un pezzo.
  • No, prima tua mamma è andata via, tu sei uscita poco dopo e ci siamo visti, poi io sono rientrato. È tutto chiaro adesso?

Chiaro è chiaro, ma a me manca sempre una parte della faccenda; non riesco a capacitarmi di tutto quello che può essere successo in pochissimi minuti e rimane un mistero come abbiano potuto incrociarsi tanti fatti fino a determinare una situazione che poteva essere anche più drammatica. Pensare a mia figlia che pulisce il sangue sparso in giro mi fa venire i brividi.

Torno alle mie faccende da sbrigare e che, purtroppo, non sono mai poche; i panni da stendere, quelli da stirare, quelli da mettere in ordine, quelli da mettere a lavare. Sempre panni. Non se ne potrebbe fare a meno? Di questa ciclicità che sembra spreco, intendo.

Cioè eliminare questo mettere via, indossare, lavare, stendere, stirare, mettere via, indossare, lavare, stendere, stirare, mettere via, e così di seguito. Non si potrebbe fare a meno di ripetere sempre le stesse cose. Quello che va sprecato è ciò che impieghiamo nel fare questi lavori. Ed è quello che mi manca. Anche nella cronologia dei fatti.

È un mistero incommensurabile, come lo spazio. Mi manca un altro pezzo. Perché questa frase l’ho già letta, su un articolo pubblicato su Sette, il settimanale del Corriere della Sera. Assieme allo spazio c’era qualcos’altro di incommensurabile, ma non ricordo cosa.

Accidenti a me e a quando lascio le cose in giro, avrò letto quell’articolo di Bevilacqua sì e no due giorni fa, ma non ricordo dove l’ho messo. Salterà fuori, prima o poi, e, come dice mia suocera, confermerà il detto “casa nasconde ma non ruba”.

Forse è meglio se m’impegno a fare qualcosa di utile.

Mi decido a chiamare Vanessa.

  • Tim messaggio gratuito, l’utente da lei chiamato non è la momento raggiungibile, la preghiamo di riprovare più tardi. Grazie.

Prego. Non me la devo prendere, sicuramente Vanessa si trova in un ufficio dove la linea non riceve, oppure l’ha staccato, riproverò all’ora di pranzo.

Nonostante i telefoni cordless e i cellulari ci abbiano abituato a comunicare con le altre persone in qualsiasi posto siamo e continuando a fare quello che stiamo facendo, io sono una di quelle che parlano al telefono stando seduta alla scrivania o appoggiata al mobile più vicino. Così, mentre aspetto la comunicazione o ascolto qualcuno mi gingillo le agende, i biglietti da visita, le chiavi, i depliant, e tutto quello che normalmente si abbandona di fianco al telefono.

Non gli articoli di giornale.

Finalmente il telefono di Vanessa suona, ma lei non risponde. L’avrà lasciato in macchina? No, durante la pausa pranzo proprio no. Lascio suonare finché non cade la linea poi, delusa, aggancio.

Certo che se quando il telefono non prende non c’è verso di contattarla, e quando quello tiene la linea lei non risponde, allora io come faccio a beccarla? Devo dirle dello zio Gianni, deve sapere quello che è successo.

Sabato ci saranno i funerali e fare avanti e indietro a Milano in un giorno solo, anche se abbiamo l’aria condizionata in macchina, non sarà il massimo del relax. Eppure non possiamo tirarci indietro, per quello che ha rappresentato lo zio Gianni per noi, il minimo che si possa fare è essere presenti alle esequie. E poi l’improvvisa scomparsa di un familiare è un dolore talmente forte che se non ci si riunisce in questi momenti significa che la famiglia è persa.

Nelle ore che trascorro in auto questa sensazione di perdita si acuisce; quel qualcosa che mi manca da qualche giorno, incommensurabile come  lo spazio, è una sensazione di perduto.

Sono in costante ricostruzione di quello che ho fatto, di quello che ho detto e di quello che ho visto; perché mi manca sempre qualcosa. La sensazione che s’affaccia allo stato d’animo è simile a quella che si prova quando all’improvviso compare la scritta TIME REMAINING. E io non so cosa fare, presa da uno strano panico che mi fa sentire costantemente al bivio.

Per di più devo correre verso la parte giusta, altrimenti perdo il gioco, o quel non so cosa del momento che in certi frangenti sento di aver già perso. Essere al bivio è una costante nel gioco della vita, ma in queste situazioni non posso stare ore o notti a pensarci su, bisogna decidere e correre in fretta.

In queste situazioni invece di guadagnare qualcosa di nuovo o di diverso, oppure semplicemente salire nella graduatoria del gioco, a me sembra solo di perdere. Perché?

Una cosa strana che mi sta accadendo da quando è capitato l’episodio con Marco, è che credo di aver già vissuto certi momenti; è una cosa stranissima perché riguarda non tanto le scene già viste o le pagine girate come potrebbe succedere con i déjà-vu, ma dei veri e propri episodi di vita.

Come la messa in scena di uno spettacolo teatrale, una telefonata ricevuta, un bollettino da pagare, una richiesta di informazioni per aiutare un’amica, e così via. Le coincidenze sono tante, troppe. Vedo le SLIDING DOOR, le  porte che si aprono e si chiudono, quelle che fanno vedere una via e ne nascondono un’altra.

Nelle scelte proposte ai vari bivi che appaiono all’improvviso, le cose fatte e vissute restano, le altre si perdono nel buio della separazione. Forse è proprio questo ciò che mi manca e mi sta creando il mistero: perdo la conoscenza di quello che non ho fatto.

Devo riprovare a chiamare Vanessa.

Il giorno dopo il funerale dello zio Gianni andiamo a recuperare il figlio in gita con gli scout. Le strade da imboccare sono definite, ma è un attimo scegliere quella sbagliata e trovarsi a girare per le montagne fino alla fine del mondo, prima di riuscire a trovare il gruppo di nostro figlio.

La giornata si svolge tra i soliti convenevoli di saluti tra i ragazzini, la messa di rito prima di andarsene e un pranzo alla trattoria nel centro del paese.

Facciamo togliere la divisa al figlio per indossare abiti più comodi. E fatichiamo non poco per aprire lo zaino e tirare fuori solo quello che serve senza gettare tutto per terra. Ma qualcosa sfugge sempre.  

Ai tavolini sotto le fresche frasche dell’osteria affacciata sulla piazzetta si gode un panorama stupendo. A completare il quadro mancherebbe solo una bambina che saltella sull’acciottolato di pietre.

Dopo mangiato ci avviciniamo al palazzo in cui c’è la mostra di un nostro amico, sono quasi le tre del pomeriggio e fa un caldo bestiale. Purtroppo la mostra è chiusa e non riusciamo a sapere quali orari fa, il figlio è stanco e decidiamo di tornare un’altra volta.

Per arrivare in questo paesino sperduto ai confini del mondo ci abbiamo impiegato una vita, mentre al ritorno arriviamo a casa in un attimo. Sarà stata la sosta alla mostra non vista la tappa a rallentarci? Ancora una volta sono i luoghi, cioè lo spazio, a determinare i limiti degli eventi?

Mio figlio ha perso l’agendina, quella su cui aveva scritto il diario del campus. Se ne accorge all’ora di cena, quando i bagagli sono stati aperti e messi in ordine. Probabilmente sarà caduta dallo zaino nei vari spostamenti, oppure quando abbiamo preso i vestiti per cambiarlo. La ritroveremo di sicuro in macchina quando ci daremo un’occhiata per bene.

  • C’erano anche le firme del gruppo di ricerca, uffa.
  • Quale gruppo di ricerca?
  • Quello che avevamo creato per la ricerca della bambina smarrita.

Io e mio marito ci guardiamo dubbiosi.

  • Spiegati meglio. – diciamo quasi in coro.
  • Un giorno, dopo che siamo tornati dalla passeggiata nel bosco, i capi ci hanno diviso in gruppi per farci cercare una bambina che si era perduta per le stradine del paese, e ci hanno assegnato una zona da controllare; quando siamo tornati al punto base, però, la bambina era già stata ritrovata. Secondo me hanno voluto farci fare una prova.

Dato che la vicenda si era risolta bene, il suo gruppo aveva firmato l’agendina a ricordo di quell’avventura. La ricostruzione dell’avvenimento ha qualcosa di zoppicante. In più io ci inserisco quella visione mancata della bambina che saltella sul lastricato di pietra. Un brivido mi corre lungo la schiena.

Tutte queste scene che si susseguono, così come quelle che devo ricomporre, hanno luoghi e spazi definiti, come l’incidente di Marco, il viaggio per il funerale dello zio Gianni, la bambina perduta e quella che non saltella sul lastricato. Però manca sempre qualcosa, così mi viene da pensare alla durata delle fasi e alla delimitazione delle circostanze.

Finalmente è libero il telefono di Vanessa.

Ma ancora una volta non risponde! Possibile? Che cazzo lo tiene a fare un cellulare con tanto di linea libera che lo fa suonare, se poi non risponde?

Questa faccenda mi sta facendo innervosire; per una volta che ho voglia di parlare con una persona, dato che solitamente sono gli altri a cercare me, non riesco a contattarla. Che senso ha dirsi “ci sentiamo” se poi non si tengono disponibili i mezzi per farlo?

Devo riprovare in un altro momento, non sa niente dello zio Gianni, non sa che gli hanno fatto l’autopsia giudiziaria, per scoprire cosa c’era dietro la sua morte improvvisa. Lo zio Gianni è perso, finito, se n’è andato e con lui la sua scienza artigiana, il suo modo di fare campagnolo e le sue tenere attenzioni. Senza dimenticare che tramite lui avremmo potuto recuperare il racconto di quello che succedeva quando c’era ancora papà. Niente, tutto perso.

Il giorno della notizia sullo zio Gianni, mi sono momentaneamente vista correre fuori dalla porta di servizio verso il giardino di mia sorella, pronta a recapitare la notizia come un piccione viaggiatore. Di quelli che si spiaccicano contro i vetri e così anch’io, che m’immagino di essere un volatile messaggero, finisco contro una parete trasparente che sta davanti al cancelletto di mia sorella. E non riesco ad aprirlo.

M’accorgo che c’è una parete davanti a me e tastandola mi rendo conto che la stessa parete è anche di fianco a me. Faccio un saltello e picchio contro un soffitto altrettanto invisibile. Sono chiusa in una scatola di vetro. Ma posso camminare, la scatola si sposta con me e mantiene equidistanti le sue pareti dal mio corpo. È sempre lo spazio a darmi dei limiti, ma è qualcos’altro che manca o che viene portato via. Rubato?

Di Vanessa nessuna voce. Comincio a pensare di mettere un messaggio in una bottiglia di vetro, come facevano i naufraghi. Pare che quella di Vanessa sia un’abitudine consolidata. Di non rispondere al telefono. Altri amici me lo hanno confermato.

Devo fare gli gnocchi con le patate che mi ha dato mia cognata, così dopo posso congelarli. Questi lavori di arte culinaria mi piacciono e mi soddisfano molto perché, oltre che essere un modo per risparmiare denaro e non sprecare niente, m’impegnano fisicamente e perciò liberano la mente. E la portano a riflettere.

Bè, cinque chili di patate hanno un loro perché nel trasformarsi in gnocchi e la lotta per riuscire a impastarli per bene con la farina è quasi impari. In certi momenti credo di avere a disposizione l’eternità, poi mi rendo conto che il trascorrere dei minuti non ha sempre lo stesso valore.

In compenso la riflessione mi porta a identificare ciò che mi manca in qualcosa che ha a che fare con la velocità di esecuzione dei fatti; come se fosse scomparsa la durata o ne fossero stati rubati o persi i termini delle sequenze.

In tutti gli eventi che si sono accavallati in questi ultimi giorni la costante è sempre stata la mancanza di una fase, il furto di una parte degli istanti. Un mistero che avvolge tutte le circostanze.

Come la morte dello zio Gianni che, non si sa perché, durante un accertamento clinico di routine ci ha lasciato. E non si sa se ci sia stato un uso improprio dello strumento per l’esame medico o se sia stato fatto un errore di valutazione nella scelta del momento giusto per sottoporlo a quel test.

Seduto sulla panca, le ciabatte ai piedi, i pantaloni legati sopra la cintola cosicché si vedono le caviglie sbiancate; chissà perché quando si invecchia le caviglie sbiadiscono. La camicia gli cade addosso come un vecchio sudario, le maniche lunghe sono arrotolate da non si sa quanto. Dondola avanti e indietro contro il muro, poi lo fa sul fianco da destra a sinistra; tiene in mano un libretto nero, sembra un diario. Ogni tanto lo guarda, principalmente quando dondola in avanti; lo stringe tra l’indice e il pollice di entrambe le mani.

Improvvisamente si blocca, la schiena dritta appoggiata al muro, il libretto stretto in fondo alle braccia tese, la faccia contrita e fissa con sguardo su di esso. Gli occhi stralunano mentre lo gira a destra e a sinistra come un volante. Poi lo apre. Sfila una penna rossa dalla guida della copertina interna. E inizia a scrivere. Da una porta esce un infermiere che lo guarda e non riesce a credere ai suoi occhi. Si avvicina per capire se sono parole o segni quelli che scrive sul libretto, poi lentamente si siede vicino a lui cercando di non distrarre l’attenzione dai movimenti del vecchio.

Ma l’uomo fa uno scatto veloce, interrompe il suo lavoro, richiude l’agenda e si rimette a dondolare.

Ha perso l’attimo.

L’infermiere s’intende.

Con calma inizia a parlare sperando che l’uomo possa tornare a fare quello che stava facendo. Ma con poca speranza. Ormai è stato distratto e per le persone di quel tipo non esiste ritorno, se non traumatico. L’unica cosa che viene in mente all’infermiere è di chiedergli dove ha preso quell’agendina, ma naturalmente l’uomo non lo degna di una risposta. L’infermiere s’allontana, deciso comunque a tenere il paziente sotto controllo per riuscire a scoprire il mistero del suo scrivere.

Finalmente decidiamo il giorno per tornare nel paese sperduto ai confini del mondo. È una calda domenica di agosto, eventi sportivi che hanno luogo in quel giorno confermano la tesi secondo cui in un attimo può succedere che un’inezia diventi grande fino a stravolgere la situazione.

A mezzogiorno mangiamo gli gnocchi che avevo preparato qualche giorno fa, poi partiamo verso l’entroterra dopo le quattro del pomeriggio per evitare di sorbirci il caldo dell’afa.

Raggiungiamo il paese e parcheggiamo nella stessa piazzetta dove ci eravamo fermati la volta scorsa; miracolo, per terra troviamo l’agendina di mio figlio. Sarà caduta dalla macchina nel tramestio della visita precedente.

Veramente è posata sul selciato in un modo poco casuale per cui sicuramente qualcuno l’ha appoggiata qui dopo averla trovata dove l’avevamo persa noi, quindi potrebbe non essere stato proprio in questo punto. Comunque la riprendiamo. Una strana sensazione mi rende sicura di aver recuperato qualcosa in più, non solo l’agenda.

  • Guarda mamma, me l’hanno scarabocchiata!

Mio figlio mi sottopone l’agenda ritrovata e in alcune pagine ci sono delle frasi scritte con una penna rossa. Non era questo ciò che pensavo di aver recuperato, delle scritte qualsiasi oltretutto messe lì da chissà chi. La cosa mi schifa. Mi dà fastidio che chiunque abbia ritrovato l’agendina non si sia limitato a raccoglierla per metterla in un posto più visibile. Qualcuno si è concesso il lusso di scriverci sopra. E per quanto se l’è rigirata tra le mani? Sono trascorsi dieci giorni da quando siamo venuti l’altra volta, quindi.

Un brivido, chissà perché, mi attraversa il sacrale mentre ci stiamo incamminando verso la mostra; ho la sensazione che qualcuno si sia appropriato dei momenti trascorsi da mio figlio in compagnia degli amici. Per di più sembrano frasi senza senso, erratiche. E questo ci riporta alla mostra, erratico bello sguardo.

  • La guarderò meglio a casa, puoi lasciarmela?
  • Sei matta, dentro ci sono tutte le frasi e le dediche dei miei amici, te lo puoi scordare!
  • Allora fai come ti pare, però se vuoi che ci capisca qualcosa dovresti lasciarmele leggere.
  • Vedremo quando saremo a casa, casomai te ne faccio leggere un po’, oppure strappo i fogli e te li do.

Prima di entrare alla mostra passiamo al mercatino dell’antiquariato; un tuffo nel passato. E la sensazione di perduto, di rubato, di qualcosa che se n’è andato e non sarà recuperabile diventa più presente senza che io sappia esattamente cosa sia.

Lungo le stradine strette del centro del paese le insegne lasciate a ricordo dai poeti e dai pensatori riportano la mente a meditare.

Un vecchietto seduto ai bordi della fontana sembra borbottare tra sé; sembra uno di quei matti liberati dalla vecchia legge sulla chiusura dei manicomi. Cerco di distrarre il resto della comitiva per non andare a finire proprio davanti a lui.

  • Quella sì che è una bella fontana, starebbe bene nel nostro giardino.

Dico rivolgendomi a mio marito e sapendo così di suscitare la sua irritabilità riguardo alla questione. Infatti lui mi prende sottobraccio e si dirige esattamente al lato opposto della piazzetta, lontano dalla fontana e dal vecchietto che borbotta da solo.

  • E magari dovrei portarti a casa proprio quella, che è una fontana in pietra, lo sai quanto pesa?!

Non lo so e non mi interessa, il mio scopo l’ho raggiunto, siamo lontani dal matto del villaggio e sempre più vicini al palazzo della mostra.

Di tutti i quadri che vediamo uno solo suscita la mia attenzione, ci vedo una locomotiva che corre su un binario quasi sospeso in aria, su un ponte senza basamenti.

All’uscita il vecchietto che prima avevamo visto ai bordi della fontana ci ha raggiunto e, o perché non sto attenta a sgattaiolare via o perché lui è rapido a bloccarci appena usciamo, fatto sta che ci bolla subito e restiamo incastrati tra il cancello semiaperto e l’uomo che sparla.

  • Il tempo del cielo. È il titolo del quadro.

A smentire immediatamente il mio prendere per matto chiunque, l’uomo ha assunto un atteggiamento distinto e vorrebbe fare il cicerone. Peccato che dalla mostra siamo appena usciti.

  • Grazie, l’avevamo visto.

Non vorrei sembrare scortese, ma questa persona mi mette a disagio; e poi come fa a sapere che eravamo interessati proprio a quel quadro?

L’uomo non si rende conto che voglio tagliar corto e continua a biascicare parole; la gente attorno a me sembra attratta da quello strano individuo, mentre a me torna a in mente il titolo del quadro. Il tempo del cielo.

L’uomo continua a parlare e improvvisamente, senza che io riesca a sfuggire a questa nuova slavata di parole, attacca in maniera decisa e quasi urlata:

  • Io rivoglio indietro il mio tempo, tutto quello che ho mangiato, quello che ho dormito, quello che ho bevuto, quello che ho lavato, quello che ho spolverato; tutto quello che mi avete rubato, io rivoglio il mio tempo!

Si sta rivolgendo alla platea improvvisata che include noialtri, il becero, mentre io non vedo l’ora di scappare.

  • Rivoglio il mio tempo rubato, rivoglio il mio tempo rubato, rivoglio il mio tempo rubato …

La sua voce diventa flebile e comincia a confondersi con il suo bofonchiare di poco prima e noi abbiamo l’occasione di sgattaiolare via. Che incontro!

Ci avviamo al punto dove abbiamo parcheggiato l’auto, finalmente si torna a casa; una bambina saltella sull’acciottolato ai lati della piazzetta, come non faceva la prima volta che siamo venuti.

Il giorno dopo mi sveglio con una grande energia e, anche se le ore trascorse a correre su e giù per la penisola hanno lasciato il segno, sono decisa a recuperare il tempo che ho perso. Lo spunto mi viene dal ritrovamento dell’articolo di giornale scritto da Bevilacqua, era rimasto in mezzo alle altre riviste nel bagno!

Lo rileggo velocemente e il binomio spazio-temporale che non riuscivo più a collegare si ricompone dandomi la chiave di soluzione; perché il mistero è il tempo in quanto incommensurabile come lo spazio.

E per essere portati al mistero bisogna porsi fuori dal tempo. Oppure il mistero arriva quando il tempo ce lo ruba qualcuno o qualcosa, e ci si trova fuori dagli avvenimenti. E quando si è impossibilitati a capirli, tutto diventa incommensurabile.

Adesso che ho recuperato il tempo, senza chiedermi come abbia fatto né chi o cosa me lo abbia fatto sparire dal vocabolario, sono piena di vitalità e sicuramente ogni pezzo del puzzle della vita tornerà al suo posto.

Frugo nella borsetta per prendere il cellulare, sul display compare un messaggino di Vanessa; adesso avremo finalmente il tempo anche per incontrarci.

  • Forza nonno, è ora di rientrare. Alziamoci piano, ecco così, si appoggi a me.

Il vecchietto fa forza con il braccio libero sull’avambraccio dell’infermiere, con la mano dell’altro stringe il bastone con cui trova l’appoggio per la gamba che lo regge di meno. Mansueto e tranquillo si lascia accompagnare da quella persona conosciuta e riconosciuta, una persona che lo rispetta e che gode della sua fiducia. Il tragitto è breve, dalla panchina della piazzetta alle stanze della casa di cura che gli sta attorno. L’anziano signore guarda il suo giovane accompagnatore, un sorriso di mutuo accordo si stende tra i due. L’ora d’aria è finita. È finito il tempo. Il loro sguardo s’incrocia di nuovo e la camminata si allunga di qualche metro passando attraverso una stradina, quella dove una bambina saltella sull’acciottolato. Il loro sorriso diventa sempre più aperto.

IL SEGRETO DI VALBRUNA

C’era una volta,

Una storia che inizia proprio così, come le favole delle mille e una notte; ma questa storia, più che la magia di una favola, racchiude in sé i misteri delle leggende, quelle di cui si popolano le favole, e quelle di cui si colora, ogni tanto, la nostra quotidianità.

È in queste leggende che si ritrovano la magia dei misteri e i misteri del segreto.

Qualcuno afferma che per vivere una vita felice bisogna avere un segreto. Forse è per questo motivo che nella falesia si vive così bene, perché di segreti ce ne sono tanti, nascosti nella brughiera che sprofonda nel mare.

Al calar della sera i più avventurosi s’inerpicano tra i calanchi della falesia per ascoltare le voci dei segreti.

Perché i segreti hanno le voci, e di notte se le scambiano tra le foglie delle ginestre. Foglie lunghe e aculeate, di cespugli folti, che di notte si aprono come un istrice aggredito, e quando si aprono liberano i segreti che hanno racchiuso con le voci portate dai venti.

Il garbino porta dalla terra al mare le voci dei fatti, arricciate tra le sue spire di folletto ventoso.

Lo scirocco le fa correre sulle onde del mare.

E le ginestre catturano quello che passa tra le loro foglie.

Spesso ci sono ragioni nascoste dietro ad avvenimenti del tutto normali.

Con gesti veloci, quelli delle gambe avviluppate dalla gonna lunga, quelli della testa che gira quasi vorticosamente a destra e a sinistra, quelli degli occhi che corrono da un lato all’altro sondando ogni millimetro del campo visivo. Così quella persona s’avvicinava alla canonica. Con un fagotto stretto tra le braccia, che erano le uniche a non fare movimento, e badavano solo a stringere.

Un ultimo sguardo non lo diede, posò come uno scatolone quel mucchio di stracci e vita nella ruota del convento, e se n’andò via senza neppure volgere uno sguardo a quello che aveva lasciato.

“ guarda quanto è piccolo “

“avrà sì e no tre giorni”

“ quale cuore di ….”

“Fate largo, invece di stare lì impalate a squadrare questo, questo, … È maschio o femmina?”

“maschio, Suor Superiora, ma è piccolo, troppo piccolo perché possiamo tenerlo noi”

“troveremo una balia, poi tornerà da noi, quando sarà più grandicello. Questo non lo lasceremo andare dai frati. Amleto è vecchio e tra qualche anno avremo bisogno di qualcuno che ci aiuti nei lavori pesanti. “

“ come lo chiamiamo?”

“ Diotallevi, perché dovrà pensarci Nostro Signore a dargli una mano nel crescere in fretta. Per il primo nome da dargli guardate il santo d’oggi.”.

Fu così che entrò a far parte di questo mondo un certo Bernardo Diotallevi.

Una figura esile s’aggirava tra le viuzze lastricate e strette che si confondevano tra la canonica e il convento; Bernardo era lesto, quando si trattava di sgattaiolare senza essere visto. Conosceva a menadito ogni angolo del borgo e nonostante la luce chiara della luna imprimesse la sua ombra sui muri, lui era sicuro di non essere notato. L’esile ombra di luna che il suo corpo di dodicenne disegnava sul tufo compatto indicava il punto opposto verso il quale si stava dirigendo.

D’altronde non temeva eccessivi rimproveri nel caso lo avessero scoperto, confidava di potersi permettere qualche svago innocente. I suoi lavori erano finiti, gli arnesi riposti, i magazzini chiusi, le preghiere recitate. Non restava altro da fare, e lui poteva godersi una passeggiata tra la brughiera mentre le suore dormivano.

Dopo una giornata passata a studiare e a dedicarsi ai compiti che le suore gli affibbiavano, trovarsi solo e immerso nella natura lo faceva sentire più grande di quanto quel corpo e l’età gli dessero modo di credere. Adorava quei momenti tutti per sé, quella era la sua occasione per sentirsi padrone del mondo.

Proprio sul tetto del mondo, uno spiazzo di radura situato nel punto più alto del susseguirsi del promontorio che s’affacciava sul mare, lui si stendeva a guardare le stelle e ad ascoltare il fruscio delle ginestre e il rumore calmo del mare.

Le ginestre di notte mormoravano di vento e di sapori, il mare calmo trasmetteva fin lassù in alto il suo senso di pace; Bernardo distingueva tutte quelle voci che ogni volta sentiva e cercava di raccogliere ogni frammento di novità che il giorno aveva lasciato. E ascoltava quello che la notte aveva da raccontare, prima che il sorgere del sole interrompesse quella magia.

Sentì il rumore secco di un ramo spezzato; TAC. Un istrice stava razzolando in mezzo alle ginestre verso est. Da quella parte spirava una brezza leggera che, assieme al rumore del ramo, spezzato portò il sussurrio delle ginestre.

“amore” “amore”.

Cos’era l’amore? Bernardo conosceva solo l’amore per Gesù, ma riteneva improbabile che le ginestre intendessero parlare di quell’amore lì.

Il sussurro crebbe d’intensità fino a diventare più corposo, come un mormorio. Ma le ginestre non mormoravano. Il rumore secco e solitario del ramo spezzato cominciò a diventare un fruscio costante e appesantito. Quell’istrice doveva essere in compagnia.

Bernardo non voleva farsi sorprendere in quella posizione sdraiata, anche perché sapeva che gli istrici non erano animali simpatici d’affrontare a viso aperto.

Rotolò verso un angolo più riparato della radura, dove cominciava lo stretto sentiero da dove era venuto. Intanto le voci, perché di quelle si trattava, cominciarono ad essere sempre più distinte.

Niente istrici dunque.

Le voci diventarono gemiti e, anche se avevano abbassato i toni del mormorio, i gesti che le accompagnavano erano sempre più identificabili.

Ma Bernardo non conosceva l’amore, e non si accontentò di scoprire che c’erano due persone tra i cespugli, ma volle anche vedere cosa stavano facendo. L’istinto gli diceva di non farsi vedere, che era meglio spiare di nascosto; dal suo ingenuo punto di vista pensava che il rischio d’essere scoperto riguardasse solo lui.

Costeggiando la radura dal lato dei cespugli s’avvicinò al punto dal quale venivano le voci e mosse verso di sé un grosso ramo di ginestra, per nascondersi meglio nel momento in cui si sporgeva a spiare sotto il groviglio di sterpi e rovi.

Non riusciva a vedere niente e dovette accontentarsi di ascoltare i dialoghi tra i due. Il mormorio di gemiti, infatti, era finito e le due persone si erano sciolte dall’intreccio incomprensibile che Bernardo aveva faticato a distinguere.

– Non posso fermarmi a lungo, tra qualche ora passerà la ronda nelle stanze e tutto dovrà essere in ordine, nessuno deve sospettare che mi sono allontanata. –

– Arriveremo in tempo, non ti preoccupare. Il cavallo è già pronto sul sentiero e sarà un attimo arrivare al castello. –

La donna si spostò di lato andando a mettere il capo sul torace nudo dell’uomo. Bernardo si ritrasse nel suo nascondiglio temendo che quel movimento preludesse al loro alzarsi.

– Sono tanto preoccupata, dubitano di me e se dovranno scoprirci per noi sarà la fine.-

– Non essere così spaventata, ci sono tre castelli da passare per arrivare fino a qui e nessuno può passare attraverso i sentieri segreti sulle mie terre. Prima che riescano a scoprirci, poi, il mio scudiero avrebbe tempo di avvisarci. –

Bernardo pensò di aver ascoltato anche troppo di quella conversazione. Nell’attimo in cui i due ripresero a vivere la loro intimità, confidando nella copertura della sua posizione sottovento Bernardo imboccò la strada verso il convento e dopo meno di mezz’ora era disteso tra le sue fresche lenzuola.

Ciò che aveva visto e sentito lo incuriosiva non tanto per le preoccupazioni dei due di essere scoperti, quanto per la novità rappresentata dagli amanti. Vivendo in un convento di suore non aveva mai avuto contatti con altri ragazzi o ragazze della sua età, e neppure aveva avuto l’insegnamento di una madre e di un padre.

Ovviamente conosceva le famiglie, sapeva anche si essere figlio di una donna che non aveva potuto accudirlo perché era morta nel darlo alla luce. Ma altre spiegazioni sul chi siamo e da dove veniamo, a parte quelle religiose, non ne aveva avute.

Quindi quella novità di coppia amoreggiante lo stimolava oltremisura. La sua curiosità era così pressante da farlo sentire in difetto per cui giurò a sé stesso che non avrebbe mai rivelato il segreto di quelle esplorazioni notturne.

Ogni volta che si ripeterono gli incontri, mentalmente annotava ogni gesto e qualsiasi sussurro che sentiva dire. E poco s’interessava ai discorsi sulle loro apprensioni.

Ma una sera, quando la luna era piena e più chiara e lucente che mai, Bernardo si trovò ad accogliere gli amanti da una posizione veramente privilegiata e quello che vide e udì gli restò impresso per tutta la sua breve vita.

Aveva visto il volto della donna nella pienezza del suo splendore durante l’orgasmo, ma ciò che più l’aveva turbato non era l’esternazione del godimento, o la bellezza di quel riflesso sul suo viso, quanto la straordinaria somiglianza con il volto che ogni mattina vedeva riflesso nell’acqua piatta del catino dove si lavava.

In un primo momento non fece tanto caso a quella constatazione, anche se in quell’attimo fu come se avesse ricevuto un pugno alla bocca dello stomaco. Tuttavia erano tante e troppo controverse le emozioni che  provava in quel momento per lasciarsi andare al giudizio obiettivo sui perché di quella somiglianza.

Fu quando lei confessò la sua futura gravidanza che qualcosa cominciò a smuoversi dentro Bernardo. E si trasformò in un maremoto quando la donna espresse molto decisamente la volontà di non volersi comportare come dodici anni prima, quando, in giovanissima età, era stata costretta ad abbandonare il frutto del suo amore.

In quel momento, come uno squarcio nel cielo della sua mente, il dubbio di Bernardo divenne una certezza.

Molte domande cominciarono ad accavallarsi tra le ginestre e il mare; tanti perché furono invocati alla luna e al vento. Nessuna risposta arrivò dalla faccia sorridente della luna piena, nessun chiarimento dal sussurrio delle ginestre, nessun consiglio dallo sciabordio del mare.

Tornò al convento dopo molto tempo che l’uomo e la donna si furono allontanati dalla loro alcova a cielo aperto; era rimasto a guardare le stelle e a interrogare la luna su quello che aveva visto e sentito. Le ginestre non gli parlarono quella notte, probabilmente erano troppo occupate a raccogliere il segreto tra le loro foglie, e l’assenza di vento contribuiva a limitare i loro sussurri.

Senza una ragione precisa, né un motivo di certezza assoluta, Bernardo si ritrovava ad avere un segreto. Un segreto come lo avevano tante altre persone e anche i due amanti che aveva spiato. Forse il suo non era un segreto grande quanto il loro, ma per lui aveva un valore assoluto. Era convinto di aver trovato sua madre.

L’attesa per gli incontri dei due amanti diventò spasmodica, i giorni che lo separavano da quei momenti diventavano dei macigni da gettarsi dietro alle spalle il più velocemente possibile. Per questo si faceva dare il maggior numero di compiti possibili ed era pronto  per ogni sorta di lavoro pesante. Così facendo il tempo trascorreva più in fretta.

Finalmente la sera arrivò, Bernardo raccolse il suo pastrano e si avviò fuori della porta di servizio nella dispensa, in fondo alla cucina. Si muoveva veloce, sicuro d’ogni suo gesto e senza inciampare nell’oscurità totale di quelle stanze a lui ben note. Fuori del convento si accorse che la luna si nascondeva dietro alle nuvole rendendosi opaca e giocando con le ombre, divertendosi così a tagliarle a metà o a disperderne i contorni.

Bernardo si strinse le spalle come a volersi rafforzare da dentro per affrontare meglio quell’avversità di scarsa illuminazione; le sue pupille cercarono di dilatarsi come quelle dei gatti. Proprio mentre s’apprestava a trasformarsi in un gatto silenzioso dal passo felpato sull’acciottolato del borgo, davanti a lui un’ombra fugace scomparve dietro l’angolo della bottega del fornaio.

Altri amanti in uscita segreta?

Dopo il lento trascorre delle ore e dei giorni, quella sera il tempo mise le ali ai piedi, e dal momento degli interrogativi si passò a quello dei fatti senza nessuna possibilità di mediazione.

L’istinto gli ordinò di seguire quell’ombra furtiva. Il suo cuore accelerò i battiti, aveva atteso per otto giorni il ritorno di sua madre sul tetto del mondo e ora le gambe andavano dietro a uno sconosciuto tralasciando la fretta di recarsi sul luogo degli amanti. L’uomo si stava dirigendo verso la brughiera, lontano dal borgo ed esattamente all’opposto dell’alcova. Bernardo si sentì perduto, combattuto tra le gambe che inseguivano quell’uomo e il cuore che voleva portarlo a rivedere sua madre.

In un lampo di luce, gettato dalla luna dispettosa scoperta da un soffio di vento, Bernardo vide il volto dell’uomo che stava seguendo.

Era lo sfregiato.

Ma non fu quella rivelazione a strizzargli le natiche, quanto il riflesso della lama del coltello che l’uomo stringeva nella mano destra e che probabilmente aveva causato il riverbero di luce che gli aveva permesso la visione del volto.

Un attimo di constatazione che lo fece trasalire a tal punto che per poco non tradì la sua presenza; con un movimento veloce e felpato si ritrasse dal sentiero, ma lo sfregiato non si era accorto di nulla e continuava a camminare spedito verso la falesia.

Le domande tra istinto e ragione non si ponevano più, ormai gli avvenimenti avevano preso la loro piega e nessuna risposta a qualsiasi domanda poteva cambiare il loro corso.

Bernardo conosceva benissimo il sentiero che stavano percorrendo e prendendo una scorciatoia riuscì ad avvantaggiarsi sull’inseguito al punto da attenderlo arrivare alla quercia di metà via. Da lì in poi il sentiero diventava sempre più ripido fino a essere quasi a strapiombo sul mare.

Dove stava andando quell’uomo? E cosa stava cercando? Ma soprattutto, cosa voleva fare con quel coltello?

Lo sfregiato superò la quercia sempre intento a raggiungere la sua sconosciuta meta; Bernardo lo vide passare e ricominciò a seguirlo. Poi decise di prendere un’altra piccola scorciatoia e attese l’uomo nel punto oltre il quale non si poteva andare.

All’improvviso un urlo, dapprima acuto, poi soffocato, squarciò l’aria tetra di quella notte; un urlo di terrore, un urlo di morte.

Bernardo s’acquattò impietrito. Non sapeva cosa fare. Dove andare. Le gambe cominciarono a tremargli inconsultamente. Sentiva freddo. Non avrebbe mai voluto essere lì.

Sentì arrivare qualcuno dal sentiero, ma Bernardo non riusciva a muoversi, grandi gocce di lacrime gli stavano scendendo sul viso e anche se si alzava i suoi occhi non erano in grado di distinguere niente.

Con le braccia strette attorno alle gambe rannicchiate vide un leggero luccichio sfiorargli i piedi; un altro brivido gli scese lungo la schiena, ma in compenso le lacrime si erano come asciugate negli occhi e sulle gote. Distinse dunque bene la lama del coltello che qualcuno, probabilmente lo sfregiato, stava pulendo sull’erba bagnata di rugiada.

Improvvisamente tutte le paure che si erano affacciate in modo violento e inatteso scomparvero e Bernardo, dopo che quel rituale di pulitura fu terminato, si mise sulle orme dell’assassino che rientrava lungo il sentiero.

Di nuovo l’istinto prese il sopravvento sulla ragione, ma questa volta non si domandò alcun perché e non si preoccupò di alcun pericolo; seguiva l’uomo e basta.

Quando furono a metà strada tra il ricongiungimento del sentiero e la scorciatoia che Bernardo aveva fatto all’andata, incrociarono la vittima dello sfregiato e quest’ultimo, nell’occasione, non la degnò neppure di uno sguardo.

Riverso sul lato del sentiero un uomo giaceva immobile, le vesti scomposte, un largo squarcio sotto la gola.

I piedi di Bernardo, contrariamente a quanto era successo agli occhi dello sguardo dell’assassino, non riuscirono ad andare oltre; quell’uomo riverso sul lato del sentiero era l’amante di sua madre!

Quella notte un altro urlo lacerò il silenzio della notte; fu un urlo o un boato nessuno lo seppe riconoscere. Successe come quando fu inghiottita Valbruna, che non si sapeva se era stato il mare ad alzarsi per inghiottire un paese costruito troppo sulla riva del mare o se il promontorio aveva ceduto franando nelle acque. In comune entrambi i fatti ebbero quell’urlo, quel rombo di tuono, quel sussurro che diventò boato e racchiuse ogni spiegazione in sé.

Qualcuno parlò di un pezzo di tufo scivolato in mare le cui tracce lasciate nel suo scalfirsi dal promontorio sembravano unghiate di ragazzo. Nessuno rivide più Bernardo, nessuno rivide più neppure quell’uomo amante assassinato.

Lo sfregiato, insospettito da un rumore alle sue spalle, era tornato sul luogo del delitto seguendo l’istinto primordiale che lo portava a non fidarsi di niente e di nessuno; purtroppo per Bernardo anche in quell’occasione l’istinto dell’assassino non aveva sbagliato, e ancora una volta il colpevole non volle lasciare alcuna traccia o testimone sul luogo del delitto. 

Accarezzando il ventre che custodiva il frutto del suo amore segreto, la donna rimasta senza l’amante prediletto giurò che mai e poi mai avrebbe abbandonato quel bambino a un ignoto destino. L’avrebbe dato a balia e in adozione per vederlo crescere e ricordare attraverso lui l’uomo che ora non c’era più.

Al castello una dama piangeva l’amante perduto, al borgo qualcuno piangeva un apprezzato cavaliere, in convento tutte piangevano Bernardo.

– Della Chiara? –

-Presente signora maestra!-.

L’appello era sempre la parte più bella della mattinata scolastica. Si sapeva di sicuro cosa rispondere. Per il resto il giovane Mario avrebbe preferito stare fuori a giocare con la neve che era appena scesa quella notte.

Della Chiara suo padre e Della Chiara anche sua madre. Ma non erano parenti.

L’origine dei nomi, badava a dire la maestra. Come il suo, per esempio. Un cognome che era dato ai figli nati fuori del matrimonio dalle dame di corte. Figli che erano dati in adozione o che venivano lasciati presso famiglie di artigiani per essere cresciuti. Non erano abbandonati nella ruota. Per questo avevano un cognome. Che prendeva origine dal nome della dama che li aveva partoriti. Così nacquero i primi Della Chiara, Della Bianca, Della Costanza … lasciamo perdere i Del Prete, in quei casi era noto il padre.

La classe di Mario comprendeva terza, quarta e quinta di tutto il paese. Era tempo di guerra, scarsità di tutto. Ogni tanto bisognava scappare dalla lezione perché arrivavano gli aerei. Abitavano sulla linea del fronte, quello della Linea Gotica, e a volte non si poteva neanche andare a scuola perché uscire da casa era troppo pericoloso.

Il tempo dei rastrellamenti era finito, ma ogni tanto i militari apparivano con l’infiltrazione di alcune truppe dell’avanguardia alleata, che spingevano da sud. Oppure si rivedevano i tedeschi, che ancora tardavano ad abbandonare le postazioni e si affacciavano tra i borghi e le case per lasciare altre zone minate, o far saltare qualche ponte.

Al calar della sera, quando le ombre della notte diventavano un manto buio che si stendeva dalla campagna fino al mare, dalle rare e isolate case uscivano i pescatori e i contadini, uomini e donne, e bambini.

S’avviavano verso i luoghi degli sfollati, verso i dirupi di tufo affacciati sul mare, dove, negli stessi anfratti dove prima si spartivano le merci e i compensi tra i contrabbandieri, ora le genti della terra, toccate dal triste passaggio del fronte nell’anno 1944, si rifugiavano dai bombardamenti.

Bombardamenti a tappeto che provenivano da ogni fronte, sia alleato che nemico, sia dal mare che da terra.

In quei tempi era veramente difficile stabilire chi era amico e chi no. Almeno per la gente di frontiera, per quelli che non vivevano a ridosso delle montagne sulle quali si organizzavano i partigiani che ricevevano notizie certe da radio Londra.

Le genti di terra vicino al mare non sapevano nulla e avevano poca conoscenza, parlavano con un polacco o con un tedesco, con un inglese o con un americano, senza fare distinzioni di sorta. Dopotutto ognuno di loro, per ragione o per torto, aveva da chiedere o da rapinare.

Ognuno di loro aveva gli amici che bombardavano. Ognuno di loro portava attacchi a queste genti, arrivando da davanti e da dietro, e, indistintamente per quanto riguardava il sud o il nord, dall’alto.

L’unica certezza era stare lontani dal lato pericoloso, quello delle colline retrostanti; dall’altra parte c’era l’unica via di salvezza, il mare.

Benedetto mare. Almeno in questo frangente. Il promontorio con i rifugi e le sue asperità era la loro salvezza. Il loro unico rifugio.

Il giovane Mario amava quei momenti d’intimità e d’unione che erano rappresentati dalle notti ai rifugi con le altre famiglie. Erano momenti in cui si superavano le invidie, ci si aiutava a vicenda, si scambiavano provviste e informazioni. Gli piaceva vedere la madre e il padre stringersi ai fratelli e agli zii, soprattutto quando, per far passare il tempo più in fretta e sovrastare il rumore degli aeroplani, ci si metteva a cantare. E sembrava che tutto si sarebbe risolto bene.

Tanto gli piacevano questi momenti che spesso se li riproponeva solo per sé. Quando aveva un po’ di tempo a disposizione, andava al porto, poi dalla spiaggia raggiungeva il sottomonte e da lì saliva lungo l’impervia falesia. Faceva il percorso inverso rispetto a quando scendeva dalla strada con la sua famiglia; un percorso inverso e molto più difficile, ma anche molto più breve.

Raggiungeva le grotte scavate nel tufo e se le immaginava piene della gente che vi avrebbe trascorso la notte, o che l’aveva appena lasciata in quella precedente. A volte, quando il tempo lo permetteva, raggiungeva una delle piccole barche tirate in secca alla riva. Si sedeva nello scafo e ascoltava; il mare da una parte e l’eco delle canzoni rimaste nella grotta dall’altra.

Ogni tanto arrivavano delle voci antiche, quelle delle donne che richiamavano, nelle giornate di nebbia, i loro uomini di rientro dal mare. Lo facevano in certi particolari punti del promontorio, per sfruttare l’effetto eco che proiettava ancor più in là in mare il loro richiamo ( an dov’è c’a sivie ).

Era il solo modo che permetteva agli uomini di sapere dov’era l’approdo del porto.

Le voci dei contrabbandieri non gli arrivavano chiare, perché lavoravano in silenzio e non avevano lasciato tracce dei loro rumori; indistintamente si erano fusi alle voci dei richiami e dunque, com’era difficile in quei tempi distinguere l’alleato dal nemico, così faticava Mario a distinguere, in quelle voci, l’anima onesta da quella disonesta.

Un giorno Mario s’attardò nel suo luogo di rielaborazione degli eventi e dal sentiero che scendeva dalla strada principale vide arrivare due persone che parlottavano tra loro. Si acquattò tra i cespugli di ginestre e attese di conoscere qual era la loro meta e quale era il motivo della loro fitta conversazione.

Arrivarono fino alla sua grotta, si sedettero su alcuni sassi di tufo appena dentro l’ingresso, si scambiarono alcune provviste e continuarono a parlare mangiando. Parlavano una lingua straniera, Mario non capiva una parola di quello che si dicevano. Vedeva che erano allegri e contenti di loro stessi, c’era amicizia e complicità tra loro. Uno di loro portava la divisa. Mario non ne aveva mai vista una simile, ma quanto a dire a quale corpo, a quale nemico, a quale alleato o a chi diavolo appartenesse quel modo di vestirsi non lo sapeva proprio.

Attese che se ne furono andati prima di scendere dal lato opposto, verso il mare, facendo a ritroso il cammino fatto all’andata. Stava diventando buio, quando finalmente giunse a casa e si dovette sorbire la ramanzina della madre preoccupata per la lunga assenza.

Quella sera Mario decise che un giorno sarebbe andato al paese di quegli occupanti, sia quelli inglesi sia quelli tedeschi, per imparare la loro lingua, in modo da non restare mai ad ascoltare parole senza senso.

Non sapeva che il destino gli avrebbe riservato tutt’altra soddisfazione a quella gran curiosità.

La sera stessa ai rifugi c’era meno gente di quanta avrebbe dovuto essercene; Mario fece poco caso a quel fatto, era ancora intento a rimuginare sull’incontro del pomeriggio e cercava nella grotta, tra le polveri di tufo, i segni di quel passaggio.

Fu una delle sere seguenti, quando si accorse che a mancare era anche una delle sue sorelle maggiori, che l’attenzione gli cadde su quelle assenze. Chiese lumi a sua madre, ma non ebbe risposta soddisfacente, invece un’alzata di spalla accompagnata da un commento qualunquistico richiamò la sua attenzione e non solo.

– Saranno tutte alla Torre di Castelmezzo.-.

L’atmosfera attorno a lui si gelò all’istante; capì di aver fatto una domanda che doveva essere privata in un luogo pubblico, e di aver sbagliato. La madre, infatti, lo fulminò con lo sguardo come se la responsabilità per aver sollevato la questione fosse stata solo sua. Nel frattempo il disagio era cresciuto e ci doveva pensare sua madre a rimettere ogni cosa a posto.

– La Marisa è andata al rifugio con la Dorina. –

Punto e basta. Il tono non ammetteva repliche, commenti o quant’altro poteva avanzare dubbi su quell’affermazione. La signora che aveva fatto l’accenno alla Torre, bisbigliò qualcosa in dialetto, come se si fosse confusa prima, ognuno cercò di rilassarsi con un cenno serio d’assenso e l’incidente si chiuse lì.

Per gli altri.

Non per Mario, che aveva capito benissimo quale fosse la reale intenzione di sua madre, vale a dire quella di zittire qualsiasi supposizione su dove fosse o non fosse la figlia. Sicuramente solo per evitare qualsiasi riferimento alla Torre di Castelmezzo.

Cosa nascondeva quel posto?

La costruzione si ergeva come un faro dalla scogliera, anche se in realtà non era in mezzo al mare, bensì si trovava sul punto più sporgente del promontorio. Più che una torre era un edificio tarchiato di poche stanze, con le finestre ai quattro lati sbarrate dalle inferriate. Alcuni dei suoi amici dicevano che era una prigione, altri che era un fortino dei tedeschi. Di sicuro non era un luogo dove si svolgevano gli stessi incontri degli altri rifugi a lui noti.

Il giorno dopo Mario si recò nei pressi della Torre di Castelmezzo anziché restare a contemplare i luoghi della grotta; di giorno c’erano pochi movimenti attorno a quel fortino, tuttavia non ci si poteva avvicinare per più di cinquecento metri perché il sentiero era sorvegliato da una sentinella.

Mario scoprì che c’era una via d’accesso dal mare e si propose di tornare a guardare quello che succedeva là dentro in una notte di luna piena e da una posizione che permettesse una più ampia veduta.

Quando quella notte arrivò, ai rifugi delle grotte non mancò solo la sorella, ma anche il fratello minore.

Mario spinse in mare una delle piccole barche tirate in secca sull’arenile, prese a remare portandosi fin sotto la rupe dominata dalla Torre di Castelmezzo. Di quello che succedeva dentro vedeva ben poco, ma i rumori e i versi soffocati che vi provenivano facevano chiaramente capire che quello che accadeva non erano torture o interrogatori. Erano incontri d’amore tra i militari tedeschi, come quello messo di sentinella, e donne portate lì da chissà dove.

L’amore.

Cosa ne sapeva Mario dell’amore? Niente. Per questo la sua curiosità di ragazzo diventò morbosa e anche se si rendeva conto di quanto quegli incontri fossero clandestini, sorvegliati e sicuramente non aperti a tutti, soprattutto ai curiosi come lui, il dubbio che la sorella potesse essere coinvolta in qualche modo spinse la curiosità oltre il limite del livello minimo di prudenza.

Remò spingendo la barchetta fino alle rocce di tufo che si gettavano dal promontorio in mare, legò la prua a una sporgenza e iniziò l’arrampicata lungo l’impervia falesia.

Quella notte un boato più potente degli altri coprì ogni chiacchiera nelle grotte, ogni verso nella Torre, ogni risacca del mare, e anche l’urlo disperato di un ragazzo colto a spiare un fortino tedesco un po’ troppo da vicino.

Poco lontano, in barba a ogni pericolo, fuori da qualsiasi muro amico e segreto, due amanti s’abbracciavano e si baciavano sul tetto del mondo; incuranti della benché minima precauzione, sicuri che il loro amore travalicava ogni confine di nazione e di divisa d’appartenenza.

La lingua in cui parlavano era quella dell’amore, a nessuno dei due veniva in mente di tradurla in polacco, tedesco, inglese o italiano.

Il boato di bomba che coprì tutti i rumori, s’inghiottì il loro amoreggiare e la scarica di mitraglietta contro Mario.

E Valbruna si portò via un altro segreto.

Le pale dell’elicottero che volteggiava in mezzo al mare provocavano un rumore cupo e sordo infrangendosi contro il promontorio; Pietro sentiva quel rumore come un rimbombo nelle orecchie e nella testa.

“Se non la smette di stare così vicino al monte prima o poi farà franare la roccia.”.

Questo e tanti altri pensieri gli correvano in testa mentre aspettava che il soccorso con la barella riuscisse a raggiungerlo. Sua sorella, passati i venti minuti che le aveva detto di aspettare nel caso in cui lui non fosse riuscito a tornare, era corsa immediatamente a chiamare aiuto.

Anche se non sapeva le sue condizioni o cosa gli fosse successo, questi erano gli accordi, in caso di ritardo doveva chiamare soccorso dicendo che un turista si era perso lungo il sentiero del ceppo sopra al fortino.

“Digli che si è perso un turista così verranno subito a prendermi.”.

La sorella non aveva chiesto altre spiegazioni a quella richiesta, e dopotutto era ben cosciente del fatto che a Pietro chiunque avrebbe potuto scambiarlo per un tedesco, con quegli occhi chiari e i capelli biondissimi.

Dal canto suo Pietro non voleva che si sapesse che si era perso o fatto male in un luogo così prossimo a casa. Sarebbe stato un suo piccolo segreto, anche se adesso che aveva fratturato la gamba scivolando da un costone, quel suo segreto avrebbe avuto vita corta. Ad ogni modo, almeno in un primo momento gli poteva garantire un minimo di anonimato, in un secondo momento avrebbe potuto inventarsi qualche fandonia.

Guardò giù verso il fortino semi sepolto dall’acqua del mare.

“Cosa mi è saltato in mente di venire fin qui, e per credere di trovare cosa, poi …”

Pensava di tutto, Pietro, a com’era sfuggita quella parola a sua madre, alla verità che avrebbe sempre voluto conoscere e a quella che si poteva nascondere tra gli anfratti e le scogliere.

E invece si ritrovava con una gamba rotta, tutti i misteri intatti, e quel diavolo d’elicottero che continuava a volargli troppo vicino. Smise anche di sbracciarsi per indicargli di andare via, magari capivano che non era un turista e si sarebbero incazzati.

Finalmente arrivarono i barellieri e riuscirono a tirarlo fuori di lì; lungo il tragitto in ambulanza stringeva la mano della sorella facendo finta di non comprendere una parola di quelle che lei si scambiava con gli altri.

Lei, d’altronde, continuava nella commedia dell’amico turista che si era perso. A nessuno sarebbe mai venuto il dubbio che avevano un legame più fisico di quello dell’amicizia. Erano molto diversi, come lo potevano essere due fratelli, di stessa madre, e di diverso, anzi, diversissimo, padre.

Anche se non era mai stato detto, anche se la differenza d’età tra loro due non era tanta e sua madre si era sposata con il padre della sorella prima della nascita di Pietro, loro sapevano che il padre non era lo stesso.

Per saperne qualcosa di più, in quell’estate del millenovecentosessantacinque, si era spinto fin dentro il fortino per cercare di scoprire qualcosa sugli occupanti che avevano trascorso tanti mesi al suo paese durante l’ultima guerra.

Ma non aveva trovato niente. Sua madre si era lasciata sfuggire un’indicazione su luoghi e su fatti di cui nessuno parlava e lui aveva seguito quella traccia minima per scoprire qualcosa del suo vero padre.

Poi, deluso, aveva pensato di cercare tra i cespugli di ginestre e tra i sentieri che percorrono la falesia, ma erano passati vent’anni, vent’anni dai fatti che tutti avevano voluto dimenticare, vent’anni da una vita che era un’altra vita, vent’anni da una guerra che tutti volevano cancellare. Come i turisti che adesso arrivavano a frotte sulle spiagge.

Guardava i fuochi di ferragosto dal terrazzo di casa sua; dopo la caduta non aveva potuto riprendere il lavoro stagionale e anche il giorno di ferragosto, di solito condiviso con le giovani festanti compagnie di turisti, si stava spegnendo malinconicamente sul balcone di casa sua.

Con il ghiaccio appoggiato alla chiappa opposta a quella ingessata. Ripensava a sua madre, alle ultime parole che le aveva sentito dire. Sua madre era morta un mese prima e l’unica cosa che era riuscita a dirgli negli ultimi momenti lucidi strappati alla malattia, erano delle informazioni strampalate sul suo padre naturale. Il tedesco.

Da lì erano partite le sue frenetiche ricerche; testimonianze, racconti, qualsiasi informazione che potesse riguardare l’anno in cui lui era nato. L’ultimo anno della guerra, quando il fronte si era fermato per parecchi mesi a cavallo delle due regioni.

Qualcuno gli aveva parlato del fortino, della Torre che c’era e che adesso era sprofondata, dei luoghi dove i tedeschi s’incontravano con le donne. Ma tutto era sembrato una leggenda. Eppoi nessuno di quegli incontri, testimoniati dai sussurri di qualche persona anziana e subito negati dalle donne più giovani, avevano portato alla nascita di figli. Sua madre, poi, aveva parlato d’amore, e non di un incontro occasionale o per giunta costrittivo.

A ripensarci non era neanche sicuro che avesse parlato proprio di un tedesco e non piuttosto di un generico straniero.

Allora dove poteva andare a ripescare qualche indizio se la storia di sua madre non si poteva ricollegare ad avvenimenti documentati o risaputi?

E poi, tra tutte le divise che si erano affacciate sul fronte in quel durissimo inverno, quali sarebbero state quelle giuste verso le quali indagare?

Purtroppo per Pietro neppure recarsi sui luoghi e cercare nei posti qualche indizio aveva portato i suoi frutti; molte delle testimonianze, poi, erano soffocate dal non voler ricordare, dal negare qualsiasi coinvolgimento. A nulla erano valse le sue insistenze e le richieste confortate dall’ultimo volere di sua madre. Le bocche erano tutte cucite.

Ora sua madre non c’era più, il padre di sua sorella negava di saperne qualcosa e giustamente si riteneva lui il suo vero genitore, se non altro perché lo aveva cresciuto fino allora.

Non gli restava che sperare nella stessa voglia di ricerca da parte di quello straniero che l’aveva messo al mondo. Magari era uno di quelli che, passati quei tempi, adesso portavano gli altri suoi figli a godersi il sole e il mare della riviera.

Le tre botte violente che come sempre chiudevano le esplosioni dei fuochi artificiali, s’inghiottirono in un ultimo malinconico addio alla ricerca della verità.

Ancora una volta la brezza del mare e il vento di Focara avevano nascosto bene l’ennesimo segreto d’amore.

UN’ESTATE PA(RA)NOR(M)A(LE)MICA

– Quanti siete?

                  –  Tre. Io, Snoo e Paolo che deve arrivare.

        Snoo si è accucciato ai miei piedi, sa che nei luoghi pubblici deve fare il bravo altrimenti ci cacciano.

Il cameriere ha alzato la testa dal foglio su cui stava prendendo nota di non so cosa, probabilmente una prenotazione per la sera; si guarda attorno, o meglio, guarda me con fare interrogativo, per capire dove sono le persone che ho nominato.

Gli punto gli occhi dentro le pupille e cerco di imporre la mia richiesta di un tavolo per tre, in modo che non si debba fare altre domande sul cliente che ha di fronte. Capisce subito di non dover indagare oltre.

Snoo si alza dai miei piedi, io muovo il bastone per seguire il cameriere e ci avviamo vesto la piccola terrazza esterna che dà sul mare. Da quassù si gode una vista spaventosamente meravigliosa e il fatto che ci sia anche un posto per noi tre è ottimo.

Mi siedo alla sinistra del tavolo appoggiato al parapetto dello spazio rubato allo strapiombo sul mare, appoggio il bastone di fianco a me e sistemo Snoo sotto la sedia del terzo posto apparecchiato, che non arriverà mai. Paolo invece si siederà di fronte a me, sul lato destro del tavolo.

Il locale è piccolo, uno dei tanti spazi rubati alla brughiera lungo la strada panoramica che si affaccia sulla costa. I pendii del promontorio appaiono e scompaiono dietro le curve e si tuffano direttamente nell’Adriatico.

Sicuramente questo locale all’inizio era solo un baracchino che vendeva piadine e frutta fresca, poi nel tempo ha cominciato a offrire qualcosa in più, come qualche primo piatto o qualche pesce cotto in gratella, fino a trasformarsi in un vero e proprio ristorante, utilizzando e adattando gli spazi disponibili tra il promontorio e la strada.

Adesso si chiama Taverna del Marinaio e io ci sono arrivata attraversando il sentiero che dal porto di Vallugola s’inerpica fin quassù attraversando fiumi di ginestre, cespugli di rosa canina, prati e pascoli, caprifogli, rovi, vitalbe e campi coltivati. In alcune zone intraprendenti viticoltori che gestiscono cantine di ottima qualità hanno messo a dimora vigneti di uva di sangiovese dai quali ottengono un vino speciale.

Qualche settimana fa abbiamo fatto questo percorso assieme agli amici del CAI e una loro guida esperta; oggi l’ho voluto ripetere assieme al mio fido Snoo. Ho deciso di fermarmi in questo punto meraviglioso della costa e aspetterò che Paolo mi raggiunga per pranzare con lui.

Non potevo sperare che anche lui si facesse questa lunga camminata, ma posso accontentarmi di vederlo arrivare sulla sua mountain bike dalla strada asfaltata. Guardo la brughiera selvaggia che si stende verticale sotto di me, giù giù giù fino ad arrivare al mare.

Pensare di aver già attraversato il Sentiero del Coppo seguendo la via più impervia che ci possa essere tra questi pendii che si tuffano in mare, mi fa venire i brividi.

Visto dall’alto sembra ancora più difficoltoso ed è difficile pensare ai contrabbandieri degli anni cinquanta che lo percorrevano dal mare verso il monte, inerpicandosi per la salita con i carichi di “bionde” arrivate con le barche attraccate sulla riva sassosa.

Sono passati tanti anni da quei periodi e i sentieri, che una volta erano curati e adattati per l’uso che se ne doveva fare, sono stati sopraffatti dalla boscaglia. Attualmente per essere transitabili da gruppi numerosi, come era il nostro del CAI, bisogna lavorarci parecchio affinché sia possibile il passaggio.

La buona volontà della guida esperta ha fatto sì che i tratti quasi chiusi e i punti dove il pericolo di frane e gli ostacoli degli alberi rendono difficile l’attraversamento, siano diventati accessibili.

Non che sia agevole scendere quel sentiero stretto liberandosi il viso dai rovi e dovendosi addirittura sdraiare a terra in certi punti per passare sotto ai tronchi delle acacie. Ma almeno si  riesce a passare senza rischiare più di tanto la vita.

Quando si raggiunge la riva sassosa e piena di rifiuti di mare, con i piedi bisogna saltellare tra le pietre più grandi per non finire a bagno nell’acqua. È una soddisfazione raggiungere quella zona e non nego che si manifesta una certa contentezza per essere riusciti a superare il tratto più duro.

Tra le rovine dei marosi avevo raccolto il più bel bastone che potessi trovare e ora è diventato il nuovo e levigato compagno di passeggiate con Snoo. Anche adesso ce l’ho qui, appoggiato al parapetto a fianco a me, splendente nella sua salina bianchezza.

Devo ammettere che, oltre alla presenza di Snoo senza il quale non mi sarei mai avventurata da sola sul Coppo, il suo aiuto nei tratti più difficoltosi mi ha permesso di raggiungere la meta senza grandi impacci. Forse il fatto di essere alla mia seconda esperienza su questi sentieri mi ha dato un certo vantaggio.

Il parapetto della terrazza del locale è di cemento, sagomato a ringhiera, e il bordo riprende lo stesso tipo di mattonella che sta per terra. Flash di immagini del paesaggio trascorso si alternano a fotografie e odori che il cervello e i sensi dipingono in maniera precisa e delineata.

Immersa nei pensieri faccio poco caso agli avventori presenti nel locale o a quelli che sono con me sulla terrazza. Un tavolo è occupato da un ragazzetto che mangia avidamente tirando su forchettate enormi direttamente dal piatto di portata.

Sembra un tuttofare capitato lì per caso e che si è fermato a lavorare in sostituzione di una improvvisa assenza  o in aggiunta a un momentaneo bisogno di aiuto extra.

Quel pasto è la paga per la sua prestazione e lui se lo gode fino in fondo, lasciando che siano altri a perdersi il gusto del mangiare affidandosi al tempo lento di un servizio accurato.

Altri tavoli occupati non ce ne sono, su quello apparecchiato per quattro persone troneggia il biglietto RISERVATO.

Torno a guardare il mare, triangoli, quadratini e rettangoli bianchi di vele e barche tinteggiano il mare verde blu intenso dell’acqua. Alla base dei miei occhi il paesaggio si chiude con il giallo verde delle ginestre di brughiera.

In questo inizio giugno fresco e assolato il profumo di questi cespugli inebria i sensi cullandoli nel godere la pace e la tranquillità del posto.      

Meditazioni e connessioni

Vanessa cammina veloce e incurante del traffico caotico che le passa a fianco; la miriade di auto posteggiate sui marciapiedi costringono a rasentare i sederi meccanici malamente parcheggiati e sporgenti, se non si vuole finire in mezzo alla strada. Vanessa sta attenta a dove mette i piedi per non inciampare e per evitare di strisciare contro qualcosa che le possa sporcare il soprabito chiaro. I suoi pensieri sono altrettanto confusionari di quello scorrere veloce e rumoreggiante di auto frettolose.

Dove sta andando? Alza la testa per riconoscere il palazzo che sta sull’angolo della via dove abita Paola e s’accorge, invece, di essere già arrivata a destinazione.
La riunione ha avuto inizio da qualche minuto e questo turba Vanessa che non è abituata ad arrivare in ritardo; quel giorno, purtroppo, ogni cosa ha congiurato contro di lei per farle perdere tempo.

Il gruppo si appresta alle recitazioni, la concentrazione cresce progressivamente e Vanessa si unisce agli altri con la mente ancora aggrovigliata nella matassa di ragionamenti inconcludenti. Deve cercare di distendersi, e un po’ di training l’aiuta a liberarsi delle tensioni accumulate fino a quel momento.

Il profumo pungente dei detergenti è molto forte, Paola deve avere fatto le grandi pulizie di casa approfittando di quei giorni di assenza dal lavoro. Chissà quale enorme soddisfazione deve essere, dopo le fatiche di strofinare, ammirare il luccichio dei propri mobili e suppellettili.

Vanessa non è il tipo di persona orgogliosa o attenta a quelle cure domestiche, tutt’altro; tolto il minimo indispensabile che consenta l’aspetto decente dell’ambiente di vita, per il resto sarebbe meglio studiare soluzioni all’avanguardia per eliminare le fatiche domestiche: serrande autopulenti, vetri polvero-repellenti, eccetera eccetera.

E se i ragni stendessero le loro ragnatele di sera per poi raccoglierle al mattino? O i pavimenti soffiassero continuamente aria per evitare che la polvere si accumuli? Se s’inventasse un modo per eliminare la polvere dalla faccia della terra?

Dopotutto è un soggetto fastidioso e nient’altro! Un mondo tecnologicamente avanzato a misura di casalinga ridurrebbe le pulizie di Pasqua al semplice gesto di svuotare il posacenere delle sigarette fumate in attesa dell’arrivo della benedizione!

Splendido!

Vanessa non si sente sollevata da quel pensiero positivo, per lei le pulizie non sono un argomento di disturbo, tuttavia fantasticare sul facilitare il mondo alle altre persone la distende. Ciò che rende stupide quelle riflessioni è il non senso, l’andare in cerca di risposte a domande che solo lei è in grado di porsi.

Eppure il training per raggiungere la concentrazione consiste proprio nel lasciarsi ondeggiare dai pensieri, da quel dolce oblio che parte dal cervello indipendentemente dallo stimolo logico.

Le meditazioni rappresentano il luogo e il tempo ideali per farlo, anche se Vanessa dedicherebbe tanti altri momenti a lasciarsi andare a quei pensieri. Tuttavia quando le capita in altri contesti deve fare marcia indietro prima che qualcuno si accorga della sua “assenza”. Per questo adora le meditazioni e le sfrutta appieno per avvolgersi nel suo stato di trance, che la immerge in un sogno dove vive quello che accade, ma non ne è fisicamente coinvolta.

Erano i momenti di lucidità del pazzo rinchiuso in manicomio, quelli in cui si rendeva conto del posto in cui si trovava e l’anima si lacerava nella constatazione. Stringeva violentemente le mani alle sbarre di una delle tante finestre inferriate della struttura, le dita diventavano bianche, senza sangue, tanta era la forza con la quale si aggrappavano a quei pezzi di ferro.

Sembrava voler prendere da essi la forza per spingersi fuori, sembrava voler tirar via quelle sbarre per passare oltre; e la disperazione nasceva dalla concreta certezza di avere quelle sbarre dentro di sé.

Quell’uomo sapeva benissimo che non sarebbe servito a nulla rompere quelle sbarre, portarle via da quel posto per permettere al corpo fisico di andare oltre. Sapeva benissimo che le sbarre che lo fermavano erano dentro di lui e lo costringevano, anima e corpo, a starsene buono lì dentro.

Questo era il suo momento di lucidità, quello in cui si rendeva conto di avere un mente che voleva, ma non poteva fare nulla; e nella lucidità di quell’istante saltava fuori il contrasto della schizofrenia del vivere sopra a un altro straccio senza contribuire per nulla a cambiare l’aspetto.

In quel momento l’ uomo era nella fase più calma, più tranquilla, quella che gli faceva capire come girava il mondo e come poteva essere lui il più furbo ed il più bravo a farlo girare come girava.

Aveva desiderato quella donna con tutto il cuore e a nulla importava se questo creava contrasto; il contrasto era la base sulla quale il suo amore e la sua voglia di possesso avevano fondamento.

Cominciò la pulizia facciale del mattino, aveva appena terminato di lavarsi il viso e lo stava asciugando; usò la salvietta che aveva lasciato sul termosifone affinché si scaldasse quel minimo che fosse di maggiore sollievo rispetto al freddo ispido.

L’infermiere osservava quell’uomo spento trascinato nel vuoto della sua disperazione; si domandava quale assurdo scherzo della mente gli avesse fatto rifiutare una vita “normale”. Non appena la faccia cominciò a risorgere dallo strofinamento dolce dell’asciugamano, il naso aveva cominciato a pizzicare, dapprima leggermente, poi sempre più acutamente: Finché, quando era ormai giunto ad asciugare le ultime parti del mento, lo starnuto uscì con tutta la violenza che il forte pizzicore aveva fatto presagire. E cadde a terra fulminato.”

– Senti, Avana, hai ancora quella crema per le mani che mi hai fatto provare qualche giorno fa?
– Accidenti Vanessa, mi dispiace, l’ho data a mia madre. Avevi detto che non ti piaceva e io ho lasciato che la prendesse lei. Non credo che la rivedrò prima che l’abbia finita perciò non potrò farmela restituire per prestartela. –
– Oh no, così non è giusto! Senti, appena ti capita di riaverla tra le mani me la procuri, OK?-
– Se proprio insisti. –

– Insisto eccome! Anzi, facciamo finta che non mi hai ancora risposto. Ti rifaccio la domanda e tu mi dici di sì, OK? –
– OK.-
– Senti, Avana, hai ancora quella crema per le mani che mi hai fatto provare qualche giorno fa? –
– Ma certo che ce l’ho! Quando vuoi passa a casa mia e te la do. –
– Ah sì? Bè, grazie, ma non fa niente, tanto non mi serve più.-
Gulp.

Vanessa è sempre stata strana, ma con questa buffonata sorpassa ogni limite!
Avana non sa cosa dire, a parte il primo momento di disappunto, le verrebbe da ridere, se non fosse che, invece, Vanessa ha un’espressione molto seria.

– Paola è morta! –
– Vanessa, ma che cavolo vai dicendo?-
– Scusa, mi sono distratta un attimo.-
– Sei sicura di stare bene? Ho visto Paola stamattina, come fai a dire che è morta?-
– Io ho detto che Paola è morta? Bè, devo essermi sbagliata. –
Non c’è verso di capirci qualcosa e Avana rinuncia ad approfondire l’argomento, a quanto pare non è giornata per stabilire un contatto reale con Vanessa.

Succede spesso, quando i suoi pensieri hanno un’importanza maggiore della realtà che le scorre vicino; per saperne di più non si può far altro che attendere.

Un uomo sta passeggiando davanti al negozio da troppo tempo e il suo non è sicuramente il comportamento di chi sta aspettando qualcuno che dovrebbe arrivare, altrimenti se ne sarebbe andato via da un pezzo, stanco della lunga attesa.

L’uomo scruta dentro al negozio di Avana e pare che valuti il momento in cui lei sia meno indaffarata per poter entrare anche lui. Purtroppo oggi è giorno di mercato e le donne si organizzano con quell’appuntamento settimanale per fare tutte le stesse compere nello stesso istante.

Alle dieci e mezza c’è finalmente un attimo di calma e Avana intravede la fine della fila di persone da servire. Dietro all’ultima donna, stonato come una carta rovesciata in mezzo al mazzo, c’è l’uomo che passeggiava fuori.

Adesso aspetta con pazienza, sicuro di essere a un passo dal suo momento; la signora che lo precede è stata appena servita e ha tutto il tempo di riporre i suoi acquisti in borsa e di sistemare il resto del denaro nel portafogli. L’uomo la saluta cortesemente, le apre la porta per farla comodamente uscire, poi si rivolge ad Avana.

Avana sente un leggero calore scenderle lungo le gambe, quell’uomo dall’aspetto trasandato indossa degli abiti puliti, ma sembrano messi addosso proprio per togliere il senso da abbandono che il suo corpo trasuda. In altri luoghi ed in altri tempi, con una maggiore cura di sé stesso nel fisico e nella mente, doveva sicuramente essere un uomo affascinante.

– La tua amica deve assolutamente darci una mano a scoprire la chiave per evitare il raggiungimento dell’apoteosi. –
– Non capisco di cosa stia parlando.  Se le serve qualcosa che c’è qui dentro, dica pure, altrimenti può andarsene.-

– Lei non capisce quanto sia importante, ma deve aiutarci assolutamente. La sua amica sta entrando in connessione e solo lei potrebbe trovare la chiave per … –
– Senta, io non so chi sia lei e di che cosa stia parlando; se non le dispiace io sono qui per lavorare e se non se ne va subito mi costringe a diventare scortese.-

Detto questo Avana accompagna benevolmente l’uomo alla porta; quel suo farneticare sconnesso gli ha tolto l’aria distinta del primo impatto, lasciando il posto a un aspetto sgradevolmente supplichevole.

Insiste con Avana affinché l’ascolti e continua a farneticare divincolandosi dalla presa risoluta delle sue braccia.
– Se ne vada prima che sia costretta a chiamare la polizia.-
– Ma lei non capisce! È una questione di morte e non può abbandonarci così.-
– Mi dispiace, ma non posso farci nulla, e ora se ne vada!-

Avana apre la porta che è faticosamente riuscita a raggiungere trascinando con sé l’uomo e lo spinge fuori cercando di non ascoltare una parola di quello che dice.
– Ma Vanessa è l’unica che può aiutarci!-
Avana sente quell’ultima frase quando l’uomo si sta allontanando e lei ha già chiuso la porta dietro di lui; vorrebbe tornare sui suoi passi dopo averne compreso il significato, ma si accorge di essere già fuori tempo massimo, l’uomo è ormai lontano dal negozio.

Ma poi, è così sicura di volere ulteriori spiegazioni? Ha avuto i brividi fin dal primo istante che l’uomo le si è presentato di fronte, è sicura di voler perdere altro tempo con lui?
L’esperienza insegna che ogni fatto riguardante Vanessa è interessante, ma anche molto pericoloso!

Il bignè con la crema di cioccolata, la torta di bignè sul banco del bar; s’allunga una mano a mo’ di lingua di rana e in un batter d’occhio il bignè entra in bocca con uno spataccamento di cioccolata dappertutto.
Avana ha quindi deciso d’incontrare Vanessa in quella pasticceria ricca di golosità sperando che quella distrazione di leccornie possa consentire alla sua amica di rilassarsi e, magari, di sbottonarsi un pochino.

In qualche modo deve esserci un’interpretazione per riuscire a capire quello che voleva dire quell’uomo. Siccome Vanessa non è il tipo di persona che si possa prendere di petto e pretendere che dia spiegazioni, bisogna andare per tentativi, soprattutto golosi.

Mentre aspetta l’amica Avana guarda la strada e l’occhio le cade sulla rivendita di giornali che si trova sul marciapiede opposto; chissà cosa deve provare un’edicola che viene letta e spulciata in ogni angolo, esposta e visibile come una puttana sotto al lampione! Anche perché chi la gestisce sta attento al fatto che sia molto visibile proprio per guadagnare soldi con la vendita.

E l’edicola, povera occupante lecita di marciapiedi ingombri, non può far altro che assoggettarsi a quel rito di svestizione volgare.

Un uomo passa indifferente vicino agli strilloni con le notizie dei quotidiani locali; Avana non lo riconosce, sta di spalle, si copre il volto con il bavero rialzato e sfoglia un settimanale; ha ragione a non soffermarsi sulle notizie del giorno, sempre le solite e mai vere.

Finalmente Vanessa arriva e Avana, dimentica di tutte le promesse che si era fatta per mantenere la calma , non le dà neppure il tempo di sedersi sommergendola di domande riguardanti l’uomo che si è presentato in negozio.

In questo modo non fa altro che peggiorare la situazione e Vanessa si chiude ancor di più nei suoi pensieri; quando il suo stato emotivo è rapito da altre sensazioni che non hanno nulla a che fare con il presente, il black out è totale.

Avana è costretta a rinunciare, l’amica viaggia su una lunghezza d’onda completamente diversa dalla sua e non c’è verso di cavarne informazioni utili.
Fisicamente ha la sensazione di avere i piedi impediti, non liberi, costretti a ridurre le dimensioni: è solo perché ha comprato un paio di scarpe strette o c’è qualcos’altro?

Solitamente i piedi non parlano, o, perlomeno, lei non gli dà retta: quante volte ha ascoltato la schiena che urla perché ha fatto un movimento sbagliato? Quante volte dà retta ad una gamba che porta il pantalone stretto? Quante volte ascolta il sedere che si è stancato di stare adagiato?

Niente, non dà mai retta a niente che le chiede il suo corpo e, dramma nel dramma, neppure a quello che chiede lo spirito!

I dolcetti della pasticceria sono veramente deliziosi; Avana si rende conto, attraverso la riflessione sui suoi piedi, di essere lontana da qualsiasi contatto mentale e fisico con l’intrusione dell’uomo nel negozio. E se è così lontana lei, come può pretendere spiegazioni da Vanessa?

“Le mani hanno un andirivieni continuo, un movimento ondulatorio da un angolo all’altro della bocca mentre le dita, nervose e frenetiche, la fanno da padrone infilandosi tra i denti. Si mangia le unghie non accontentandosi solo di quelle, ma tirando via anche centimetri e centimetri di pellicine attorno ad esse; il problema è che più va avanti e meno quelle pellicine sono sufficienti a soddisfare il suo desiderio di scorticatura.

Dalle piccole falangi si sposta a quelle più grandi, si spella tutto il dito, poi il dorso della mano, il polso, e alla fine giunge al culmine: incide la pelle vicino all’unghia e arriva fino al gomito togliendo un’unica striscia di cute.”

La ragazza abitava uno qualunque dei piccoli appartamenti di periferia: cucina sala due camere e un bagno; uguale a tutti gli altri che occupavano i palazzoni grigi e neri fuori città. E quella casa, piccola, pulita e squallida, arredata con poco gusto, era la tana e la dimensione unica su cui si articolava la vita.

Lavorava in una fabbrichetta della zona, un’utilitaria parcheggiata con onore nel box del palazzo, una bicicletta scardinata, ma spiccatamente all’uso femminile. Viveva con una compagna, felicemente presente nelle richieste d’aiuto, aveva un’amica che raccoglieva le scarsissime confidenze, la parrucchiera di fiducia ed una vicina di casa che tentava in tutti i modi di saperne di più. Tutte donne.

Entrò in chiesa per vedere le candele accese e gli ex voto che facevano capolino dalle immagini e dalle reliquie sacre. La chiesa con le luci arancioni soffuse era luogo di culto, ma anche depositario di sordidi misteri; quegli aloni di luce diffusa alludevano ai bisbigli ed ai sussurri che attorniano anche i luoghi del sesso. La chiesa fatta di cemento e di madonnine rifuggiva qualsiasi apertura verso i momenti di reale e franco confronto proprio come nei casini si evita l’ammissione della vendita d’amore.

La ragazza in chiesa, con un velo di pizzo calato sul viso, si aggirava tra i banchi davanti alle immagini sacre; pregava mentre qualcuno la osservava pensando alla pia donna che poteva essere. Si muoveva con regolarità, passando da un santino all’altro, mentre il suo sesso eccitato gridava la voglia di essere soddisfatto.

Sottanone lungo, occhiali che nascondevano la vera identità degli occhi, il prete sembrava immerso nei suoi pensieri, camminava seguendo un tragitto con degli scopi ben precisi. Doveva compierlo ostentando quella sapienza che si pretendeva da lui e che avrebbe voluto far pesare ancor di più. Fece caso alla ragazza che si era seduta sulla panca, giustapposto della sua presenza aveva interrotto il girovagare tra i banchi. Adesso toccava a lui compiere lo stesso rito di passeggio tra santi, santini e candele.

La ragazza, intimidita dall’arditezza di quei loro incontri, voleva scrollarsi di dosso lo scandalo per quel suo essere lasciva; avvertiva il contrasto di ciò che stava facendo e di quello che nel suo conscio le veniva dettato come scandaloso; ma ancora una volta decise di ascoltare quello che le chiedeva il corpo e ciò che saliva, come un urlo, dal suo sesso eccitato. Era un messaggio inequivocabile e a nulla sarebbe valso recitare contrizione per evitare il contrasto.

L’uomo dall’altro lato della navata osservava e non sapeva se dissentire o meno da quel comportamento; dopotutto, fino a qualche decennio prima i contrasti erano alla base del vivere civile.

La ragazza inspirò aprendo i polmoni al massimo, dal naso fece entrare quanta più aria fosse possibile, ma quando iniziò a farla uscire per completare la pienezza di quel respiro profondo, non ci riuscì affatto. Il torace restò bloccato nel primo movimento inspiratorio e la testa si accasciò da un lato adagiandosi sulla spalla.

“La visione delle pellicine scrostate è sconvolgente e porterebbe all’insopportabilità della situazione; l’occhio cade sull’avambraccio e nel brevissimo istante in cui si posano notano un neo che cammina. La constatazione fa trasalire, quel tanto che basta a distrarre dalla visione, poi gli occhi tornano a guardare la pelle per constatare che nulla si sta muovendo. Un sospiro di sollievo e si può tornare a concentrarsi sulla meditazione.”

La giornata è triste quando bisogna stare in negozio e invece si avrebbe voglia di fare tutt’altre cose; persino lo spettro della possibile visita dell’uomo misterioso sarebbe una opportunità preferibile a quella malinconica solitudine.

– Ciao Vanessa, come va oggi?-
– Avana? Ciao, cosa ti succede? Lo sai che non devi chiamarmi in ufficio se non è un bisogno urgente!-
– Ma io ho bisogno di te!-
– Cos’è successo?-
– Non ti ricordi? Devi ancora spiegarmi cosa vuole quell’uomo da te.-
– Quale uomo? –
– Oddio, Vanessa, ricominciamo da capo?-

– Senti, io non so di cosa stai parlando, sono sul lavoro e sto perdendo tempo con te. Non prendertela male, ma appena avrò un attimo di tempo verrò a chiarire questa cosa, va bene?-
– Stasera?-
– No, stasera proprio non posso; facciamo domani pomeriggio in negozio, va bene?-
– Sì.-
– Eh, mi raccomando, tranquilla, OK?-

È una parola restare tranquilla, anche se quelle due chiacchiere contribuiscono ad allentare la tensione del pensiero.

Vanessa ha una naturale facilità nel trovarsi a suo agio girando per la città, non si perde mai e anche se non sa dire in quale punto esatto si trova, ha precisamente idea di dove andare per arrivare alla sua meta.

Un uomo la sta seguendo nei suoi spostamenti zigzagati, Vanessa non si accorge di lui perché il pensiero è concentrato sulla meditazione e la realtà che sta percorrendo in quel cammino a piedi non fa parte di un tangibile senso.

“Stava così, con lo stuzzicadenti perso nella bocca mentre cercava disperatamente il dente da torturare; ma il dente non c’era, faceva parte di uno di quei patrimoni fisico-genetici spariti dall’immagine riflessa dallo specchio.

Il calendario, appeso in un angolo del mobile di cucina, non annoverava tra le date da ricordare, quelle cerchiate con la penna rossa di fianco al santo di turno, gli appuntamenti dal dentista.

Mangiava pillole di bistecca, pillole di verdura, pillole di pesce, pillole di frutta; il profilo era addolcito, come lo potevano essere i volti la cui fisionomia ovoidale si era adattata alla mancanza dell’ostacolo duro dei denti.

Il povero stuzzicadenti, decaduto a povero oggetto di innocui ricordi, cercava disperatamente un appiglio orale interno senza trovarlo; e chi lo aveva messo in bocca solo per dare un angolo al sorriso, tentava invano di non farlo dannare tanto.

Dal piccolo stomaco, logorato da eccessi di non mangiare e di non digerire, un forte desiderio carnale saliva a riempire quel vuoto. Uno stomaco inesistente, ridotto a piccola sacca di cornamusa che non suonerà più, poteva solo fare da tramite a quella sensazione insoddisfatta.

Il travaglio della condizione si acuiva con la mancanza di possibilità e la presenza di qualsiasi soluzione era negata dalla mancanza di opportunità, che era fondamento del mondo. La discussione al tavolo si era animata su quei ragionamenti mentre lo stupido stuzzicadenti continuava a rigirarsi nella bocca in cerca del contrasto che non c’era.

Il ragazzo dall’altra parte della tavolata osservava quel suo atteggiamento di vuota presenza; quando se ne accorse lo stupido stuzzicadenti gli andò di traverso, un rantolo uscì dalla gola strozzata e la testa cadde pesantemente sulle vaschette di pillole del vassoietto.”

La meditazione di quella serata ha avuto dei connotati strani e questo sta causando dei dolori esistenziali a Vanessa. Riesce comunque ad arrivare al termine della riunione, ma quando esce, anziché tornare a casa, si dirige verso il pronto soccorso dell’ospedale per farsi visitare. Si sente ammalata di tristezza, ma pare che il medico di turno non la capisca.

Avana va a recuperarla in quel posto spoglio e asettico, è suo dovere aiutarla a uscire dallo stato di trance in cui si trova.
– Le riunioni cui partecipi potrebbero essere la causa di questi momenti d’incomprensione?
Non c’è possibilità di risposta, l’amica vive ancora intensamente dentro alla meditazione di quella sera e seppur Avana riesce a riportarla a casa prima di un ricovero per malattia mentale, non c’è verso di risvegliarla dalla concentrazione.

L’uomo osserva la finestra illuminata al quarto piano del palazzo, vede la luce spegnersi poco dopo che il soggetto del suo interesse ha lasciato l’appartamento. Gira i tacchi e si avvia verso la sua meta.

“Il corpo non aveva più ragione di avvertire ciò che veniva toccato con la punzecchiatura dello stimolo nervoso; la sensazione, positiva o negativa che fosse, raggiungeva il centro del cervello senza passare attraverso il corpo.
Ogni dissidio era superato, ogni possibile contrasto di armonia tra mente, corpo e spirito era appianato dalla soddisfazione completa. Erano momenti di estasi che accompagnati da una situazione di concretezza del desiderio raggiungevano apici da orgasmo.

Il fluire di liquidi corporei si animava dando movimento e vita mentre il piacere pervadeva i sensi. Lo spazio aveva le dimensioni ridotte dell’onirico senso del nulla, ma questo non vietò ad un corpo contundente di urtare quei corpi. Una presenza fisica estranea denudò quell’intimità proprio mentre il piacere dolce e mellifluo raggiungeva l’orgasmo e questo provocò un irrigidimento sensoriale. La fisicità si scontrò nel contrasto uscendone morta.”

Il caffè rovesciato sulla tovaglia bianca, la macchia scura s’allarga fino allo svuotamento della tazzina e, dopo aver lasciato l’alone di dubbio, ritorna dentro al contenitore. Vanessa sente un istintivo e forte desiderio di gridare; è costretta a interrompere la meditazione per dedicare attenzione al braccio che le duole tanto.

È costretta ad andare in ospedale, la profonda ferita al braccio, di cui non sa spiegare il perché, non può essere tamponata con un fazzoletto. Sette punti di sutura chiudono l’incidente dal punto di vista medico. Quanto alle spiegazioni possibili non se ne trova una plausibile. Avana è attonita.

Vanessa s’aggira per il negozio come se volesse comprare qualcosa: squadra gomitoli e colori, bottoni e forme, calze e misure. Avana non sa cosa dire, capisce di essere troppo fuori dai confini entro i quali l’amica sta vivendo.

Chiacchierano a vuoto in attesa dell’orario di chiusura, poi s’avviano dopo aver raccolto le loro cose, compreso il quotidiano lasciato aperto sul tavolo dei bottoni. Non fanno caso a quello che c’è scritto sotto alla foto del cadavere ritrovato qualche giorno prima in mezzo alla brughiera.

Avana piega il quotidiano alla male e peggio mettendolo sotto l’ascella e incamminandosi dietro all’amica.
Il rilassamento e l’intensità con cui partecipa alle meditazioni e quel perdersi in un mare di sogni da vivere in prima persona sono difficilmente comprensibili per lei.

È un mondo privo di contrasti, in cui è possibile vivere ogni tipo di esperienza raggiungendo la purezza dei sensi, e per Avana non ha un senso logico. E tutti quegli incidenti fisici a Vanessa, come si conciliano con il “mondo perfetto”?

È assurdo raggiungere quello stadio di estasi perfetta se poi non c’è riscontro nella realtà; o, peggio ancora, se nella realtà si determinano contrasti ben più gravi della normalità. La perfezione bisogna trovarla nel contrasto reale delle situazioni.

Fortunatamente Vanessa pare essersi stancata di quella rilassatezza artificiosamente creata sulla base di una meditazione. Le sta confessando di avvertire una sorta d’intrusione medianica che la sta sorvegliando, che è dietro alle sue spalle pronta a rubare la chiave dei suoi segreti.

Avana ha un brivido, questa  storia delle meditazioni, di mediazioni e chiavi, le dà una sensazione lugubre. Cosa devono farci le altre persone con i segreti di chi condivide certe situazioni?

“Le mani ruotavano sulla superficie liscia e bagnata dell’enorme bolla viscida, gli occhi si allontanavano e si avvicinavano per cercare di distinguere i soggetti interni. I movimenti assomigliavano a quelli veloci e rapidi delle teste degli uccelli; di qua e di là per raccogliere a trecentosessanta gradi quello che la visuale permetteva.

Dentro amebe di spiriti indefiniti gestivano una loro vita senza sapere di essere osservati. Erano prigionieri guardati a vista, accusati di accettare contrasti e conflitti che non si conciliavano più con il trend della vita migliore. Uno dei guardiani fissò l’occhio su un contrasto in particolare e fu così che si accorse della diversa visuale.
L’unghia lunga e affilata s’infilò nella superficie della bolla provocandone una ferita profonda e gonfia. Lo scoppio fu di proporzioni enormi e immediatamente successivo al ferimento.

Nulla sarebbe più stato come prima.

Vanessa e la sfinge

Mrs. Biggy came down to our house to have a little party with us. Non era chiaro come mai la memoria le rimandasse il ricordo di quella serata con le parole in inglese. Non c’è dubbio che le lingue si confondono nel momento in cui si ha a che fare con persone che hanno conosciuto mezzo mondo. E infatti quello era il caso di quello strano incontro.

Mrs. Biggy viveva a Vienna e aveva trascorso una parte della sua vita in Sud Africa, dove era rimasta a vivere una delle sue figlie. Parlava inglese, austriaco, un po’ d’italiano e, naturalmente, alcune lingue africane. Veniva spesso in Italia, per trascorrere le vacanze estive e aveva allacciato amicizie con albergatrici e bagnini della riviera.

Quella sera le persone che sedevano attorno al tavolo della cena avevano le più diverse origini e tradizioni; se fosse stato possibile tracciare le rette colleganti i rispettivi luoghi di nascita, di crescita e di residenza, mezzo emisfero sarebbe stato avvolto da fili intersecanti.

In certi momenti era un attimo perdere la testa dietro ai collegamenti che si sarebbero potuti sviluppare in quell’incontro di culture e generazioni: figli, madri, amiche, anni di distanza e luoghi differenti.

I discorsi abbracciavano gli argomenti più diversi finché la discussione si accese sul racconto del pomeriggio trascorso a visitare la città di Urbino. Ciò che rimase impresso a Mrs. Biggy fu la presenza di due sfingi scolpite sul portale d’ingresso del teatro Raffaello Sanzio. Anche a Vienna, al museo del Belvedere, erano le sfingi a troneggiare sui lati degli ingressi. Questo fatto era molto curioso, cosa avevano in comune Urbino e il Rinascimento, con Vienna e il complesso di giardini e palazzi del Belvedere Superiore?

La curiosità di certe analogie era acuita dalla situazione che si stava vivendo, ma fra le tante chiacchiere di quella piacevole atmosfera casalinga non c’era spazio per porsi interrogativi troppo sofisticati. Eppure la domanda che ognuna si poneva era cercare di capire quale filo passasse attraverso le diverse epoche e le varie generazioni per accomunarle con un destino di cui s’ignora la comprensione.

La confusione era già notevole per le diverse lingue utilizzate, tra austriaco, inglese, italiano e parole in suaili era difficile seguire i discorsi, figurarsi poi mettersi a fare quesiti storici o architettonici. Il ragionamento sulle forme che rincorrono i simboli e i loro significati attraverso i secoli, non poteva durare più di tanto.

Vanessa entrò in casa come un fulmine, mimò alcuni passi della danza della primavera, poi abbracciò l’amica con caloroso affetto; era un po’ di tempo che non si vedevano e scambiarsi qualche effusione in più non guastava di certo.
Davanti a una tazza di caffè fumante le ultime sul come va e le solite confidenze rendevano ancor più piacevole quel loro ritrovarsi.

  • Cosa fai domani?”
  • Dormirò tutta la mattina e … altrettanto il pomeriggio; sai che quando il negozio è chiuso pratico l’ozio assoluto!
  • Perché non vieni con me ad Urbino, devo andare a ritirare alcuni documenti all’università e potremmo approfittarne per fare una passeggiata.
  • Non è che Urbino mi attiri molto, più che altro per la strada scomoda che bisogna fare per arrivarci; se non parti troppo presto al mattino, posso farci un pensierino.
  • Okay, aggiudicato, ti passo a prendere alle sette e mezza.
  • Ma, scusa, ho detto non troppo presto e le sette e mezza ti sembrano un orario decente?

Come al solito non c’era possibilità di replicare, quando Vanessa decideva di fare qualcosa bisognava sempre stare alle sue regole. Il caffè l’aveva finito e non ci fu verso di fermarla per ottenere dilazioni sull’orario, era già sparita in fondo alle scale.

Avana restò ferma sul pianerottolo con la tazza in mano, non potendo far altro che bersi quello che era rimasto del caffè e mandare giù anche la decisione di Vanessa per l’indomani.

Stavano aspettando che arrivasse l’ascensore per scendere al parcheggio e si erano sedute alla male e peggio su una panchina di pietra davanti al teatro. Vanessa aveva sbrodolato i suoi fogli e le sue carte con la borsa, occupando gran parte della seduta, poi si era sdraiata sulle gambe di Avana.

Guardando il frontespizio del teatro ad Avana tornarono in mente le chiacchiere fatte con Mrs. Biggy e raccontò tutto a Vanessa. Purtroppo lei era assorta nei suoi pensieri, come le capitava sempre quando gli impegni raggiungevano le mete che si era prefissata. Perciò non fece una piega e restò così com’era, come se il racconto non avesse in alcun modo penetrato la corteccia cerebrale.

Avana conosceva benissimo l’amica e quell’atteggiamento non la preoccupava affatto, sapeva che prima o poi sarebbe uscita fuori con un commento a riguardo, magari quando meno ce lo si poteva aspettare. Sicuramente il discorso sui simboli e sui loro collegamenti attraverso i secoli era un argomento molto interessante per Vanessa, ma in quel momento restò muta e questo a conferma del suo carattere.

Vanessa era un tipo fuori, fuori da ogni logicità, fuori da ogni convenzione, fuori da qualsiasi programma; ed era stupenda così com’era, libera, sincera, travolgente, totale. Il classico tipo di persona che quando ti passa velocemente a fianco incontrandoti sulle scale di un anonimo palazzo, ti fa girare la testa per seguire l’onda del suo camminare. Era vicino a lei era come sentirsi sfiorare da un tornado avvolgente. E poi … usava un profumo …

L’accensione dell’utilitaria ogni tanto lasciava a desiderare e anche in quella occasione diede modo di farle sparare qualche parolaccia. Mentre Avana armeggiava per riuscire a metterla in moto prima che la batteria si scaricasse completamente, Vanessa ebbe un sussulto.

  • Cosa ti ha detto Mrs. Biggy delle sfingi che stanno sui frontespizi dei monumenti?

Eccola, Avana lo sapeva che sarebbe scappata fuori nel momento meno opportuno! Adesso dovevano preoccuparsi dell’auto che non partiva e lei, invece, tornava sul vecchio discorso.

Avana, per dispetto, decise di non risponderle, ma con Vanessa non si poteva decidere quello che era meglio fare, e mentre continuava ad armeggiava con la chiave della messa in moto, la sua amica era già uscita dall’auto. Quando se ne accorse scese anche lei, abbandonando l’accensione ai suoi malanni, e seguì Vanessa che ne se stava andando per i fatti suoi.

  • Vanessa cosa fai? Dove stai andando?
  • Vado a vedere le sfingi.
  • Ma se siamo state lassù fino adesso! Vieni a darmi una mano con la five hundreds invece di perdere tempo.

Sapeva che le sue erano solo chiacchiere, un modo come un altro per prendere tempo affinché Vanessa l’aspettasse e non scappasse troppo davanti a lei.

Tornarono davanti al teatro, Vanessa insistette per sedersi di nuovo nella scomodissima posizione di prima, poi pretese che l’amica le ripetesse quello che le aveva già detto. Avana si sentiva oggettivamente cretina a ripercorrere quelle cose già fatte, ma lo sapevano solo loro due di essere già state lì e per fortuna non rischiavano di fare una figuraccia con altre persone. Solo con le pietre e le piante che le avevano viste prima.

Vanessa aveva conseguito da poco la laurea in Sociologia e, nonostante lavorasse, era riuscita a completare il corso di studi senza finire fuori corso.
Vanessa era incredibile, trovava il tempo per fare un mucchio di cose e tutte molto bene; restava un mistero solo il suo essere attaccata a quel lavoro di centralinista che svolgeva con tanta diligenza.

Avana non capiva cosa l’attirasse in quelle sfingi, anche se era era chiaro che una certa curiosità si accendesse nei confronti delle possibili connessioni attraverso i secoli di certi simboli. Comunque, detta così, per Avana si trattava solo un’elaborazione mentale dei ricordi, mentre Vanessa sembrava veramente attratta dal significato simbolico che avevano le sfingi.

Quando finalmente tornarono a casa, dopo aver combattuto non poco per avviare l’auto, Vanessa si gettò a capofitto nella consultazione delle varie enciclopedie per scoprire tutto ciò che era possibile. Avana sopportava con malcelata sufficienza; non perché non fosse anche lei curiosa di quello che si poteva imparare, quanto perché le impuntature di Vanessa avevano sempre uno sfondo di pericolosità. Un brivido le corse lungo la schiena e lo cacciò indietro come un sintomo del passaggio dal freddo al caldo, senza dargli peso.

Dal forsennato spulciare tra i volumi scovarono alcune informazioni importanti, anche se molto elementari: scoprirono la storia egizia della sfinge e la sua funzione sacra di guardiana e protettrice nei templi e nei palazzi. Naturalmente i testi informavano anche del significato mitologico che la sfinge ebbe per i greci, l’indovinello che poneva ai passanti e la soluzione di Edipo.

La sfinge aveva il volto del faraone e il corpo di leone, la sua investitura di custode alle porte delle piramidi era giustificata, oltre che dalla raffigurazione dell’immagine del faraone, anche dalla sua natura di protettrice.

Nella mitologia greca la sfinge, dopo che Edipo aveva indovinato la soluzione alla sua domanda, si gettava dalla rupe e si trasformava in pietra. Ma se si assommavano il significato greco e quello egizio cercando in questo il collegamento attraverso i secoli, tra africa, sud africa, Austria e Urbino, la situazione diventava un tantino complicata.

Vanessa rideva di quelle conclusioni illogiche e sgarbugliate di Avana, allora lei esagerava la confusione per divertirla ancora di più; chi ha visto Vanessa ridere approverebbe in pieno questo comportamento.

Comunque loro due l’avessero capita e interpretata, la conclusione fu che con ogni probabilità la sfinge era a guardia dei monumenti per sorvegliarli. I testi non spiegavano nient’altro e la storia più interessante era la leggenda di Edipo. Come tutti i miti, le saghe e le leggende del tempo antico, anche la sua storia era intrisa di oracoli, indovini, maghe, sibille e … sfingi.

Era vero che quella greca non c’entrava nulla con quella egizia e che il suo significato si era tramutato nel tempo dopo che le culture ellenica, egizia e romana avevano cominciato a confondersi e a integrarsi. Ad ogni modo la figura e il significato di guardiane restava inalterato con il trascorrere dei secoli.

Erano esseri metà umani e metà animali che si frapponevano tra il popolo e il dio per custodire, attraverso i loro indovinelli e i loro trabocchetti, le porte che permettevano l’accesso ai luoghi di culto delle divinità. Con il trascorrere dei secoli i luoghi di culto si erano trasformati da semplicemente religiosi a monumenti per la conservazione della storia; ma le sfingi avevano mantenuto il loro ruolo di sorveglianti.

Era questo il punto focale sul quale concentrare l’attenzione per avere una risposta: la posizione e l’importanza delle sfingi nel loro ruolo di guardiane.
Cosa possedevano le sfingi per essere diventate le tenutarie dell’accesso tra gli uomini e il dio? Quale segreta virtù avevano per essere le sorveglianti?

E se attraverso i secoli era rimasto intatto il loro ruolo simbolico, ma era cambiata la nostra visione del dio, chi assumeva il loro stesso significato nell’attualità del nostro accesso al dio? Quali erano le sfingi del nostro tempo, simboli a parte? E chi aveva ereditato la segreta virtù della sfinge? Chi ci apriva le porte al dio: il prete, lo psicologo o… la Cartomante?

Avana aveva avuto a che fare, nel suo recente passato, con una cartomante e quel pensiero fugace di lei fu sufficiente a farle correre un brivido lungo la schiena. Non voleva assolutamente cadere di nuovo nel baratro di confusione psicologica come le era successo e non aveva più alcuna voglia di cercare risposte. Stava bene come stava, non le importava nulla di scoprire quello che animava il destino e neppure ciò che collegava al dio.

Sull’onda di quella riflessione prese un decisione importante, avrebbe seguito Vanessa nei suoi ragionamenti quel tanto che bastava a darle l’impressione di esserle vicina, ma mai e poi mai si sarebbe addentrata nei meandri di una spiegazione completa.

Lo squillo del telefono era sempre la causa di un sobbalzo improvviso, specialmente quando non c’era un impegno che concentrasse la mente e ci si distraeva con le letture frivole.

  • Sei tu Vanessa?
  • Sì, ciao, senti, io parto per il Cairo domani mattina, vieni con me?

Non c’era una risposta da dare, una frase e una domanda come quella era un sasso lanciato con la fionda, si poteva solo prendere in testa. In tutto ciò non c’era un senso logico da seguire e, comunque, Avana non aveva alcuna parola che le potesse uscire dalla bocca.

  • Avana, ci sei? Ti ho chiesto se parti con me domani.
  • Vanessa, ma sei fuori di testa? Come pensi che possa partire così, su due piedi e per giunta per andare in vacanza dall’altra parte del mediterraneo!
  • Io non vado in vacanza, vado in Egitto a scoprire la storia delle sfingi.
  • Vanessa?
  • Eh?
  • Ci sei tutta o un pochino di cervello l’hai venduto?

Aveva chiuso il telefono! Accidenti! Se rifiutarsi di seguire i suoi ragionamenti era una cosa plausibile, esprimere dei giudizi sulle sue scelte comportava dei rischi incalcolabili. E a mente calda Avana ci cascava sempre.

La richiamò immediatamente spiegandole che era un tantino esagerato organizzare un viaggio in Egitto solo per scoprire cose che avevano già conosciuto attraverso i libri. Ma quelle erano le giuste scuse per evitare che l’amica s’offendesse dopo il giudizio sul suo cervello, e Vanessa lo comprese. Ciò non toglieva nulla al fatto che in mente avesse solo il pensiero fisso di quella nuova avventura nordafricana.

  • Almeno mantieni un contatto con me, fami sapere i tuoi spostamenti e quali sviluppi hanno le tue scoperte.

Furono le ultime accorate parole che riuscì a dirle dopo aver compreso che nulla avrebbe fermato Vanessa. Trascorsero alcuni giorni di vuoto assoluto, poi finalmente il fax in negozio iniziò a trasmettere messaggi.

Avana si era dotata di quel mezzo non tanto per necessità lavorative, quanto per la praticità della comunicazione che esso permetteva. Quella scelta fatta tempo prima adesso le tornava utile per essere aggiornata sull’avventura dell’amica a spasso tra dune e piramidi egizie.

Il primo messaggio era un’estasiata descrizione della bellezza dei luoghi che Vanessa stava visitando nel tour della valle del Nilo. A quanto pare aveva messo da parte le sfingi e i loro enigmi per dedicarsi al turismo puro e semplice.

Non era la prima volta che dopo aver acceso un lume di curiosità nel cervello decidesse di partire alla scoperta di mondi e storie nuove. Come quella volta che era andata in Irlanda per conoscere le leggende dei folletti; se ne tornò dopo due settimane con una pentolaccia piena di stranissime monete d’oro.

Naturalmente non confidò mai a nessuno dove se le era procurate e tutto ciò alimentava il sano dubbio che l’avesse veramente rubata a un folletto dalle bretelle rosse. Chissà cosa avrebbe portato indietro dall’Egitto!

Vanessa era così, non si poteva inserirla in un determinato cliché, nessuno la conosceva fino in fondo e il dubbio di avere a che fare con una strega impazzita piuttosto che con una ragazza straordinaria restava sempre presente!

Eppure, questa volta dell’Egitto, la situazione sembrava diversa, come se qualcosa, nel sottofondo, richiedesse una maggiore attenzione per essere capita.

Il mistero di quel viaggio era fondato sul fatto che Vanessa non faceva mai qualcosa solo per soddisfare le sue curiosità personali; quando andò in Irlanda lo fece perché una sua amica le aveva detto di essere stata, in una vita precedente, uno gnomo di bosco.

Ora, quanto a ritenere quella una verità fondata ci sarebbero stati già molti dubbi da parte di qualsiasi persona sana, ma essere riuscita a farsi raccontare i segreti dei boschi e crederci al punto tale da andare a verificarli di persona, solo Vanessa poteva farlo!

E ora che viveva quella passione per l’Egitto, cosa poteva aver scatenato in Vanessa la stessa voglia per l’approfondire l’argomento?

Con il trascorrere dei giorni i fax di Vanessa diventarono sempre più frequenti, talvolta anche più di tre o quattro in un giorno. Erano colmi di informazioni e di spiegazioni sui luoghi visitati, Avana li custodiva tutti per seguire ogni passo di Vanessa. Inizialmente era possibile leggerli seguendo i vari passaggi, poi fu impossibile mantenere il filo del discorso perché erano diventati troppi. Si moltiplicavano con valenza esponenziale e ben presto il negozio cominciò ad assomigliare più a una cartoleria che a una merceria.

Poi, un giorno, quel flusso da fiume in piena s’interruppe e non arrivarono più messaggi per qualche tempo. Ciò permise ad Avana di mettersi al pari con la lettura di quelli che si erano ammucchiati precedentemente.

Le scoperte di Vanessa erano molto interessanti, soprattutto per come lei le descriveva in modo estasiato. L’unica incertezza sorgeva riguardo ad alcune sue affermazioni sulla qualità del cibo, ottimo a suo dire. Si sapeva che il mangiare di quei paesi non fosse esattamente confrontabile con il nostro, eppure per lei:

“Gita sul Nilo: servizio pranzo ottimo, avresti dovuto esserci per gustare questi sapori!”

E ancora: “Sembra di essere immersi in un altro mondo, sembra di vivere in un’altra atmosfera, quasi surreale; e poi l’acqua, d’un incanto unico per il suo calmo scorrere, e poi la luce, la luminosità di questi posti ha qualcosa di speciale.”

Oppure: “…oggi sono andata a visitare il museo del Cairo; quante meraviglie! Mummie, reperti, papiri, oltre tremila anni di storia racchiusi in tante stanze che raccontano una parte dei secoli trascorsi. Sembrava di essere in un labirinto, in ogni stanza si accendeva una luce diversa che proiettava immagini del mondo passato. È straordinario!”

Quella similitudine con il labirinto le fece fare un salto nei ricordi lontani nel tempo, un viaggio già fatto e non vissuto, un’esperienza sofferta e poi negata; Avana ebbe un brivido. Poi continuò la lettura.

“….nonostante i tanti stimoli che il passato offre in questi posti, rendendosi sempre presente, ci sono molte attualità moderne che, se anche creano contrasto, danno il senso della vita che scorre. E qui tutto scorre al ritmo del Nilo, calmo placido e tranquillo, ma che può trasformarsi da un momento all’altro in una furia travolgente, pericolosa per chiunque ci navighi dentro.”
“…Avana, finalmente ci sono! Oggi vado a vedere le sfingi, augurami buona fortuna!”

Cara, splendida, imprevedibile, pazzesca Vanessa! Se solo avesse lasciato il modo di poter comunicare con lei! Avana sarebbe ben felice di farle gli auguri. Ma quei fax sembrano provenire dal paese del nulla, non ci sono numeri telefonici di riferimento e nessun dato che possa far risalire alla fonte di partenza.

“…Avana! Sono arrivata alla Sfinge! Ho scoperto che la loro immagine simboleggiava la forza e l’intelligenza, mentre la sacralità era data dalla testa di faraone. Venivano poste all’entrata delle piramidi proprio per stare a guardia e a custodia dell’ingresso del luogo dove c’era il dio faraone.”

Ma tutte quelle cose le sapevano già, che cavolo era andata a fare in quei posti se le informazioni di quel genere le avevano già avute dai libri? Avana non aveva risposte e non poteva porre quelle sue domande all’amica, almeno finché non si decideva a mandarle un numero di riferimento prima di cacciarsi in qualche guaio.

Perché le dava tanto assillo il timore che potesse succederle qualcosa?

I brividi lungo la schiena diventavano sempre più frequenti e Avana non vedeva l’ora che l’amica tornasse per porre fine a quella vicenda. Avvertiva lo stesso senso di disorientamento che s’impossessava di lei nei momenti di panico; ma se non stava succedendo nulla, perché avere tutta quella paura? E di che cosa?

“…Avana, le sfingi sono di una bellezza unica! Sono talmente imponenti che risultano sacre solo per il loro esserci. Quando le guardi da sotto, il loro sguardo sembra proprio scrutare dentro alle persone; sono vicinissima a scoprire quale lato del loro simbolismo gli dà la virtù per essere le guardiane dell’accesso al dio. Sto per scoprire il segreto degli occhi della sfinge che vedono tutto. Tu, però, dovresti farmi un favore, dovresti andare dalla Cartomante e farti spiegare il significato della carta X. Grazie!”

Quello era l’ultimo fax di Vanessa, ancora privo di qualsiasi riferimento per risponderle. Avana si stava incazzando seriamente. A parte il fatto di non poter comunicare con lei, a parte il fatto di essere sparita in quel viaggio senza senso, a parte il fatto di non aver nessuna intenzione di tornare dalla Cartomante, quello che la innervosiva di più era la perentorietà e l’impossibilità di replicare a quell’ultimo messaggio.

Avana ricordava benissimo lo scetticismo di Vanessa nei suoi confronti quando aveva cercato delle risposte dalla Cartomante. Ora che era lei a pretendere delle informazioni rinnegando l’ostracismo e, anzi, esortandola ad andarci per avere un aiuto, il nervosismo di Avana prendeva il sopravvento.

I brividi e le ansie si concretizzavano proprio con il terrore di dover tornare dalla Cartomante. Era un’ulteriore conferma della fondata paura che potesse essere lei la sola persona in grado di aiutarle a scoprire il mistero della sfinge!

Il richiamo alla carta X era il segno che collegava la ricerca di una spiegazione sulla virtù delle sfingi all’attualità del loro significato simbolico. Avana avrebbe voluto seguire i ragionamenti di Vanessa senza addentrarsi nei particolari, ma ora si trovava costretta a farlo, e questo non andava per niente bene.

Doveva andare avanti seguendo il destino senza poterlo manovrare, nuovamente entrata nella confusione più totale, chiusa in un’intricata e appiccicosa ragnatela che le impediva di ragionare lucidamente.

L’ultimo fax ricevuto era datato tre giorni prima e da quel momento non aveva avuto altre notizie di Vanessa. La Cartomante poteva essere un mezzo per scoprire quello che le stava succedendo, oltre che farsi spiegare il benedetto significato della carta X. Ma Avana rifiutava anche il solo pensiero di tornare da lei.

Le ore trascorrevano lunghe quanto i giorni interi e ogni minuto che passava pesava come un macigno sull’indecisione di venire a capo di quella situazione.
La Cartomante la ricevette dopo poche ore dalla sua telefonata; Avana aveva fatto mezz’ora di training autogeno di concentrazione per riuscire a superare l’emozione di quel ritorno.

  • La sua amica è in pericolo, sta correndo dei rischi molto grandi nel suo viaggio.

La Cartomante era una persona di poche parole, ma quelle che aveva pronunciato erano sufficienti per distogliere Avana da qualsiasi concentrazione e far sì che si precipitasse a prenotare il viaggio al Cairo.

Il tentativo di rilassarsi al massimo per tornare da lei non era servito a nulla e la solita parlantina di Avana si era trasformata in un fiume in secca non appena si era seduta di fronte alla Cartomante. Dopo l’incredibile notizia dei guai in cui si era cacciata Vanessa, il significato della carta X rimase una domanda non posta.

  • La sua amica doveva essere rientrata tre giorni fa, stando alla sua prenotazione, per cui adesso non saprei assolutamente dirle dove si trovi. Queste sono tutte le informazioni in mio possesso, di più non sono in grado di fare.

L’impiegato dell’agenzia fu molto gentile, ma la mancanza di certezze sugli spostamenti di Vanessa rendeva tutto molto complicato. I brividi lungo la schiena cominciavano a sovrapporsi l’uno all’altro e Avana era in preda a una sorta di strana febbre.

Tutto quel casino per scoprire la virtù delle sfingi che aprivano l’accesso al dio: ma chi cazzo se ne fregava delle qualità della sfingi! E chi se ne fregava di arrivare al dio! E fra tutte quelle menefreganze, cosa c’entrava la carta X?

Partì confidando nella fortuna degli sfigati, l’unica che potesse seguirla quando tutto era perduto; era ben poco, ma Avana era costretta ad accontentarsi.

Il Cairo è una città caotica, confusionaria e piena di gente di ogni tipo. Avana cercò l’hotel dell’agenzia dove aveva prenotato Vanessa e sistemò le sue cose prima di organizzare le ricerche.

L’unico filo da seguire era quello esile della Cartomante, per questo motivo Avana l’aveva pregata di tenersi in contatto con lei comunicando attraverso i fax. Avrebbe fatto come pollicino, seminando indizi in modo che fosse possibile rintracciarla; se Vanessa fosse precipitata in qualche luogo sconosciuto, almeno dopo averla ritrovata qualcuno sarebbe potuto venire a riprenderle!

Era immersa in una specie di caccia al tesoro, dove la Cartomante le dava le istruzioni, lei era la concorrente e Vanessa il tesoro da ritrovare! Sembrava un assurdo inconcludente, ma non si poteva far altro che proseguire.

L’odore della polvere e del calore, la confusione di un mondo diverso, le puzze di quello che si cucinava… ma come aveva fatto Vanessa a dire che si mangiava bene quando a lei il solo odore di cibo cotto dava alla nausea?

Non c’era tempo per dedicarsi alla scoperta di quella società diversa, Vanessa era nei guai e bisognava scovarla al più presto per riportarla a casa.

Un ennesimo brivido percorse la schiena, Avana lo scacciò via come per liberarsi di un insetto fastidioso; doveva riflettere con calma se voleva riuscire a raggiungere i suoi scopi.

Riflettendoci che cosa c’era di tanto pericoloso nell’essere in quel posto, a parte i rischi di una grande città e lei essere una donna sola? Un altro brivido se ne andò giù per la spina dorsale. Sola in un posto sconosciuto, senza nessuno cui poter fare riferimento, quale specie di pazzia le aveva preso per andarsi a cacciare in quel pasticcio?

L’unica soluzione era cavarci le gambe il più in fretta possibile; se questo doveva passare attraverso una Cartomante anomala, una caccia al tesoro inverosimile e l’annullamento della domanda sul significato del simbolo della sfinge, amen.

Avana fece una lunga chiacchierata con la  segretaria dell’hotel che, naturalmente, aveva notato Vanessa e ne aveva seguito le mosse passo a passo. Per fortuna anche Vanessa, ogni tanto, aveva dei comportamenti normali, come confidarsi con qualcuno sulle sue avventure.

La ragazza le diede gli indirizzi delle persone che conosceva e che aveva messo in contatto con Vanessa per darle un aiuto nella ricerca del segreto delle sfingi.

Avana si recò dal primo della lista, anche se le sembrava improbabile che uno scaricatore di porto le potesse dare delle informazioni utili su Vanessa. Infatti non accennò a nulla che potesse far pensare a dove fosse o a cosa stesse facendo la sua amica. Ciò che invece contribuì a contrariare Avana fu il modo in cui si rivolse a lei, il suo sguardo indagatore e penetrante nascondeva qualcosa di sinistro. E alludeva a una sua supposta superiorità nel giudicare le domande di Avana.

Quel suo persistere nello scrutare aveva un che da inquisitore dell’inconscio, e ad Avana non piaceva affatto essere guardata fino nel profondo. Una sorta di familiarità ingiustificata con quell’individuo rendeva ancor più sgradevole l’esservi a contatto e, constatata la scarsa opportunità di avere indizi utili da lui, Avana passò al secondo indirizzo.

Si trovò di fronte all’abitazione di una signora nel quartiere più bello della città, quello residenziale del ceto medio alto. La casa era stupenda e dentro non si poteva non notare il lussuoso modo di attorniarsi di ogni comodità. Anche in questo caso una sorta di ingiustificata familiarità indusse Avana a perdersi dietro ai possibili ricordi di una persona e di una situazione analoghe.

Purtroppo certe associazioni di idee partono da zone del cervello sconosciute ed è molto difficile seguirne i percorsi. In compenso a questa infruttuosa divagazione, invece di concludersi con una perdita di tempo la signora diede ad Avana alcune informazioni utili.

Lei e Vanessa si erano lasciate qualche giorno prima con la promessa di andare assieme a trovare uno strano personaggio che conosceva tutti i segreti dell’antico Egitto, ma la sua amica non si era presentata.

I primi due personaggi della lista avevano in comune una certa familiarità, anche se contrastanti tra loro: uno pareva un profondo indagatore mentre l’altra era di una certa superficialità. Cosa collegava quelle persone e che significato aveva parlare con loro per scoprire dov’era Vanessa?

Comunicò con la Cartomante la quale liquidò le sue sensazioni come un riflesso della ricerca del significato delle sfingi. Le informazioni raccolte non erano sufficienti per avere un quadro completo: la Cartomante aveva spiegato, ma Avana non aveva capito nulla!

Non le restava che continuare le indagini accantonando il personaggio di cui le aveva parlato la signora del lusso. Doveva seguire la scaletta data dalla segretaria, altrimenti sarebbe saltata la metodica del pezzo per pezzo e si sarebbero perse le possibilità di completare il puzzle.

Il terzo personaggio della lista era un vecchietta che abitava nei quartieri bassi. Quando Avana si trovò di fronte a lei non ebbe alcuna associazione d’idee, ma i brividi dietro la schiena diventarono una cavalcata selvaggia.

Anche questo soggetto aveva lo stesso sguardo indagatore dello scaricatore di porto, ma per fortuna le mancava l’accento sinistro; raccontò della scoperta di Vanessa sulla virtù della sfinge che è muta, non parla, ma dai suoi occhi puoi capire la domanda che rivolge al tuo cuore.

Cosa c’entrava il cuore con l’accesso alle piramidi? Avana stava perdendo il senso del significato. Se le sfingi erano le guardiane delle piramidi, cosa c’entrava il cuore di Vanessa? Che davvero le sfingi si domandassero quale fosse il grado di purezza di un visitatore per sapere se era degno di accedere al dio?

Avana si stese sul letto della sua camera d’albergo. Avrebbe voluto dare un senso a quegli incontri e a quelle persone senza fare una valutazione condizionata dal punto di vista delle sue sensazioni.

Tuttavia niente di quello che stava vivendo poteva avere un senso al di là della ricerca di Vanessa. E per arrivare alla meta lei era costretta a trovare il filo conduttore nonostante tutte le congiunture s’opponessero.

Profondità, esteriorità, purezza; queste erano le tre caratteristiche riconducibili a quelle persone. Queste erano le condizioni da valutare per le caratteristiche che doveva avere il visitatore di fronte alla sfinge. Solo così essa poteva conoscere la profonda distanza dall’esteriorità nella purezza, requisiti necessari per essere degni di accedere al dio.

Come una folgorante illuminazione adesso le era chiara la virtù della sfinge.

Altre domande s’affacciarono nei pensieri di Avana. Quell’accento sinistro dello scaricatore di porto era il riflesso della paura di Avana di essere indagata nell’inconscio? A lei quante porte avrebbe sbattuto in faccia la sfinge non trovandola degna dell’ingresso?

Comunicò con la Cartomante riguardo agli sviluppi che aveva maturato; lei però altro non seppe dirle altro se non complimentarsi per la scoperta. Intanto il dilemma di Vanessa continuava, dov’era finita? Ora che aveva in mano la risposta sul ruolo della sfinge era sempre più lontana dal rintracciare la sua amica. La tensione poteva diventare disperazione.

Lentamente ma in maniera insistente i ricordi iniziarono a prendere un corpo significante e la memoria tornò all’indizio datole dalla signora del lusso. Quello riguardante l’uomo tuttologo delle sfingi, quello che doveva andare a trovare insieme e Vanessa.

Trovarlo non fu una impresa facile, tutti lo conoscevano, ma nessuno sapeva come trovarlo; fu costretta a girare per i sobborghi più malfamati e puzzolenti che esistessero al Cairo.

Quando finalmente si trovò faccia a faccia con quell’incredibile personaggio la rivelazione fu quasi scioccante. Era un uomo sulla cinquantina asciutto come un’acciuga sotto sale, e nonostante ciò il suo viso e i suoi atteggiamenti richiamavano una certa rotondità, probabilmente determinata dall’enorme mole del suo sapere.

Affermare che somigliasse a un personaggio che comprendeva Vanessa, la Cartomante e tutti quelli che Avana aveva conosciuto in quel pazzesco viaggio, sarebbe stato limitativo. Forse racchiudeva anche il personaggio della sfinge, l’unico che lei non aveva incontrato!

Il confronto con quel soggetto si mise immediatamente su di un piano sballato e le associazioni d’idee subirono un’impennata confusionaria che gettò Avana nel caos più totale. Quell’uomo fu solo capace di lanciare una serie di imprecazioni sul carattere eccessivamente temerario di Vanessa, e non ci voleva lui per scoprirlo!

Fu difficile scindere le informazioni utili tra quelle urla e quegli improperi; l’idea di essere di fronte al personaggio risolutivo di tutta la faccenda svanì di colpo lasciando il posto all’associazione d’idea con l’uomo del pappagallino, quello che faceva del suo vizio la virtù da esternare e di cui essere fiero nei confronti del mondo intero.

Nonostante fosse certa delle sue valutazioni, Avana era ancora al punto di partenza nella ricerca della sua amica.

Avrebbe dovuto indagare su quelle persone seguendone le mosse o doveva basarsi su quello che trasmettevano in fatto di sensazioni? Dove iniziava il doversi spogliare dei condizionamenti e come bisognava invece basarsi solo sulla purezza della naturalità assoluta?

Se quell’uomo era la chiave per comprendere tutto, con quell’incontro altro non aveva fatto altro che riportarla con i piedi per terra.

Se ne tornò in albergo completamente demoralizzata. La ricerca le aveva fatto scoprire cose che già sapeva, aveva seguito gli indizi arrivando a un punto morto della ricerca e ora aveva solo un pugno di mosche in mano.

Improvvisa come il lampo che squarcia il cielo grigio di un temporale la soluzione più naturale che potesse esserci le scaturì in mente come l’ultimo barlume cui aggrapparsi. La cosa più sensata da fare era quella di rivolgersi alla polizia per sapere qualcosa in più sulla scomparsa di Vanessa era. Perché a quel punto non si poteva far altro che considerarla una scomparsa. Quanto essa fosse stata determinata dal mistero delle sfingi o dalla pazzia pura dell’amica stava alla polizia stabilirlo; lei voleva solo ritrovarla.

L’approccio con le autorità locali non fu semplice, trovare qualcuno che comunicasse in inglese era impossibile e l’unico aiuto che le diedero fu l’indirizzo di un investigatore privato. Bella fatica!

Prima di rivolgersi a qualcuno che le volesse solo spillare dei soldi, Avana decise di indagare da sola cominciando dagli ospedali. Aveva già pensato di cercarla tra i “feriti”, ma poi aveva abbandonato l’idea considerandola un eccesso di pessimismo. Tuttavia in certi momenti la disperazione riesce a dare la forza per le soluzioni meno auspicabili, perché il pensiero che le fosse successo qualcosa come un incidente o un malanno di qualche genere, non aveva mai sfiorato la mente di Avana. E invece fu proprio così.

Vanessa stava sul lettino con la flebo attaccata a un braccio, gli occhi leggermente evanescenti e l’apparente aria di abbandono. A prima vista Avana ebbe un tuffo al cuore, Vanessa era il massimo della salute e della forma fisica e vederla in un lettino d’ospedale era un controsenso.

Si avvicinò a lei timorosa di quello che avrebbe potuto scoprire, ma quando vide che lo spirito era vivo e rendeva manifesta la presenza dell’amica, si tranquillizzò alquanto.

  • Vanessa, ma che cazzo hai combinato!

Al solito la paura tramutava in arroganza il tono delle parole di Avana, che però furono determinanti per svegliare definitivamente Vanessa dal torpore e per accendere la luce nei suoi occhi.

In quel momento, poi, non poteva scappare in fondo alle scale né chiudere il telefono o salutare avviandosi dalla parte opposta, per cui non le restò che buttarsi a capofitto nello sfogo diretto, raccontando quello che le era successo.

  • Ho tentato di portare il tuttologo in spedizione notturna alle piramidi, perché mi hanno detto che di notte gli occhi della sfinge diventano di fuoco e disegnano sulla sabbia del deserto il significato del loro sguardo!

Avana non riusciva a credere che qualcuno fosse riuscito a metterle in testa un’idea del genere!

  • Quell’uomo s’è rifiutato di accompagnarmi, nonostante abbia insistito tanto e gli avessi offerto un sacco di soldi. È rimasto deciso nel suo no. Non ricordo esattamente come si sono svolti i fatti, ma le parole sono diventate forti e attorno a noi si è formato un cerchio di persone. Il resto è quello che vedi davanti a te in questo letto d’ospedale. Ma non badiamo a questa triste storia, e tu dimmi, cosa ti ha detto la Cartomante della carta X?

Avana si stava riprendendo dallo stupore di quelle rivelazioni e non le sembrava vero che la sua amica fosse stata coinvolta in una sorta di rissa tra scaricatori di porto! Riprese il controllo e cercò nella memoria le parole esatte che aveva usato la Cartomante.

  • La carta X è la Papessa, la dea dentro di noi; rappresenta l’intuizione ed è il simbolo della purezza dei pensieri, dei sentimenti, dei desideri, dell’aspetto, delle parole e del gesto. È la guardiana dell’ingresso al Tempio dell’iniziazione di re Salomone e ci fa vedere la via della realizzazione attraverso il superamento dei nostri dubbi ascoltando con maggior fiducia i sentimenti e le intuizioni.

Vanessa sembrava assente, immersa nei suoi pensieri come le capitava spesso. L’atmosfera era surreale, dati gli eventi e gli avvenimenti. Improvvisamente, come colta da un’illuminazione folgorante, prese la mano di Avana e disse molto seriamente.

  • Avana, devi mettere un sfinge sulla porta di casa tua per scoprire i segreti e riconoscere chi non è degno di accedere al tuo focolare.
  • Vanessa?
  • Eh?
  • Ma vaffanculo! È meglio se torniamo a casa il più presto possibile!